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L’eterna fallacia della prosperità a mezzo deficit

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di MATTEO CORSINI

Come è (tristemente) noto, a sud delle Alpi la valutazione della revisione del Patto di Stabilità e crescita è sempre stata incentrata sulla quantità di deficit che sarebbe stato possibile (continuare a) fare dopo la sospensione delle regole durante la pandemia dal 2020 in poi.
Il tutto nella largamente prevalente opinione che la via alla prosperità passi attraverso la spesa in deficit, nonostante la grande mole di debito accumulato nei decenni dovrebbe rendere evidente il contrario.
Il ricorso al debito ha senso fino a quando il ritorno degli investimenti finanziati a debito è superiore al costo del debito stesso. Condizione che deve essere soddisfatta ex post, non solo ex ante, ovviamente. All’aumentare del debito, peraltro, è sempre più difficile soddisfare la condizione, il che spiega come mai non tutti gli investimenti, pubblici o privati che siano, possono essere finanziati a debito.
Si tratta di una verità perfino banale, che dovrebbe essere ben chiara a tutti coloro dotati di buonsenso, anche senza aver frequentato corsi di base di economia. Eppure non è così. Ecco, quindi, uno dei cantori della prosperità a mezzo deficit, Gustavo Piga, commentare il recente accordo sulla revisione del Patto.
  • Varrà la pena solamente ricordare come altre aree federali come gli Stati Uniti hanno regole alquanto diverse che permetteranno loro, con tutta probabilità, di guadagnare ulteriormente in dinamicità rispetto all’Europa. Tra il 2020 ed il 2024 gli Usa cresceranno il doppio dell’area dell’euro (circa 8% rispetto al nostro 4%) grazie a deficit su Pil che sono il doppio di quelli europei. Nel medio periodo la musica non cambierà, anzi: gli Stati Uniti fino al 2033 prevedono di lasciare il deficit su Pil al di sopra del 6%, mentre questo Patto di Stabilità e Crescita approvato ci spinge verso il target ben più austero dell’1,5 per cento. È evidente che gli Usa hanno bene in mente le drammatiche sfide che li attendono nel prossimo decennio – ambientali, tecnologiche, geopolitiche – mentre l’Europa della valuta comune pare inviluppata in una battaglia di retroguardia che non potrà che stimolare populismi e estremismi, mettendone a rischio la stabilità tanto cara, paradossalmente, ai falchi dell’austerità, risultati vincitori nella lotta sulla riforma del Patto.”
Piga pare dare per scontato che l’accumulazione di deficit annuali, che ingrossano il debito, non abbia alcun effetto collaterale. In sostanza, che sia una sorta di pasto gratis. Ma prima o poi il pasto gratis di oggi dovrà essere pagato, con una combinazione di tasse, minore spesa e inflazione. Altrimenti perché non vivere solo di debiti?
Ciò detto, non pare poi che in America il rischio di populismo, da quelle parti identificato con Donald Trump, sia basso, essendo lo stesso in largo vantaggio nelle intenzioni di voto alle presidenziali del 2024 rispetto al presidente uscente Biden, che fin qui ha accumulato oltre 6mila miliardi di dollari di nuovo debito federale, per la gioia dei keynesiani che non si capacitano (vedi Paul Krugman) del perché gli americani non facciano salti di gioia.
Non che il nuovo Patto non presenti criticità, a partire dal fatto che avrebbe dovuto essere di più facile applicazione e invece continua a mantenere regole legate al concetto di crescita potenziale del Pil, ossia una variabile non osservabile e soggetta ad ampie dosi di discrezionalità nella sua quantificazione. Il che ripresenterà gli stessi problemi del patto vecchio, che evidentemente non era interesse reale fossero risolti.
Secondo Piga, comunque, il da farsiappare obbligato: i prossimi governi dovranno infatti fare da soli quello che un’Europa sospettosa non ha consentito e cioè trovare, ma non a deficit, risorse per finanziare le necessarie e inevitabili spese per lo sviluppo per il tramite degli investimenti pubblici. E dove trovare tali risorse se non in una spending review che non tagli la spesa ma solo quella parte di essa rappresentata dagli sprechi? Per farlo, ogni Governo responsabile avrà innanzitutto il bisogno e il dovere di dotarsi di una classe di dipendenti pubblici all’altezza del compito: personale giovane, capace, da strappare al settore privato per il tramite di appropriate remunerazioni competitive. È l’unico modo per uscirne, anche se va preso atto che questo Governo in carica non ha creduto nella spending review come carta negoziale per ottenere dall’Europa un Patto di Stabilità e Crescita che potesse aiutarci invece che affossarci, e che anche l’opposizione, con i precedenti Governi, si è eclissata su questo tema. Colpo di reni cercasi!
Non entrando nel merito della inevitabilità del progresso a mezzo di investimenti pubblici, ammettiamo pure che siano finanziati riducendo altre spese. Il problema è che gli “sprechi” non sono mai tali per i beneficiari di quelle spese, e ognuno di essi vota. Di qui tutti i fallimenti delle varie tornate di spending review. E di qui anche il prevedibile (e condivisibile) scetticismo da parte degli altri Paesi europei nell’accordare all’Italia più spesa in deficit a fronte di promesse di revisione della spesa.
Fino a quando prevarrà la mentalità del deficit come mezzo per raggiungere la prosperità, il problema non sarà risolto. Il che mi lascia (molto) pessimista.

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