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Libertà di pensiero ma non di parola! avanti col codice rocco

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di ALESSANDRO FUSILLO

Gli amanti della “costituzione più bella del mondo” vanno orgogliosi soprattutto dei principi fondamentali, i primi articoli della carta fondamentale che consacrerebbero uno statuto democratico di libertà per tutti i cittadini italiani. Tra codesti principi un posto preminente è occupato dall’art. 21 che orgogliosamente recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Bello, chiaro, inequivocabile. Chi potrebbe non essere d’accordo?

Qualcuno che non è d’accordo c’è, e si tratta, sorprendentemente, della Suprema Corte di Cassazione e della Corte costituzionale. Strano no? I massimi giudici non condividono la costituzione. Ritengono, infatti, che, per quanto bellissima, ci siano altre leggi ancora più belle e, quindi, prevalenti. Una tra queste leggi è il codice penale, promulgato il 19 ottobre 1930 con le firme di Vittorio Emanuele III, Benito Mussolini e del guardasigilli Alfredo Rocco. Chi si trovasse a pensare che il mantenimento del codice penale del duce nella democraticissima repubblica italiana è, quantomeno, un elemento stonato, non abbia timori: all’indomani della caduta del fascismo il legislatore repubblicano, limati alcuni elementi un po’ imbarazzanti come la pena di morte, si è visto confortato dalla dottrina penalistica che, come per gli altri codici del dittatore di Predappio, assicurava trattarsi di una legge di impostazione profondamente liberale, perfettamente compatibile con la repubblica e la sua splendente, e bellissima, costituzione. Il duce, che pure aveva coniato il motto “tutto nello stato, niente al di fuori dello stato, nulla contro lo stato”, deve essersi distratto mentre un manipolo di criptoliberali, infiltratisi tra i gerarchi in orbace, gli scrivevano i codici. Nessuna ragione, quindi, per abrogare le leggi fasciste salvo alcune.

Ora, il codice penale contiene, oltre a un libro dedicato alle disposizioni generali sui reati, un catalogo di delitti. I reati sono organizzati per contenuto, o meglio, secondo il bene giuridico offeso dal crimine. Se si chiedesse a chiunque di scrivere un catalogo di reati, ci sarebbe da stare certi che questo ipotetico codice penale comincerebbe con i fatti più gravi: omicidio, stupro, sequestro di persona e poi rapina, furto, truffa e via elencando. Se, poi, si dovesse scrivere un codice penale con la costituzione alla mano, sarebbe altrettanto sicuro che il nostro legislatore immaginario non inserirebbe alcun reato di opinione. Come si potrebbe, dal momento che la costituzione stabilisce la massima e assoluta libertà di manifestazione del pensiero?

Ecco l’elenco dei diversi capitoli (titoli) in cui è diviso il codice Rocco, nell’ordine: delitti contro la personalità dello stato, delitti contro la pubblica amministrazione, delitti contro l’amministrazione della giustizia, delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti, delitti contro l’ordine pubblico, delitti contro l’incolumità pubblica, delitti contro l’ambiente, delitti contro la fede pubblica, delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, delitti contro il sentimento per gli animali, delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe, delitti contro la famiglia, delitti contro la persona, delitti contro il patrimonio. L’omicidio, quindi, arriva buon penultimo nel titolo XII mentre il furto sta alla fine, ma proprio alla fine, nel titolo XIII. I liberali compilatori del codice penali dovevano essersi nascosti molto bene.

Il titolo primo, quello dedicato ai delitti contro la personalità dello stato – qualunque cosa questa enigmatica espressione possa significare – contiene una serie di delitti, cosiddetti di vilipendio. È vietato dalla legge penale vilipendere pubblicamente: – il presidente della repubblica, – la repubblica, – le assemblee legislative, – il governo, – la corte costituzionale, – l’ordine giudiziario, – la nazione italiana, – il tricolore, – ogni altro emblema dello stato. Dal 2006, questo va riconosciuto, le pene sono state alleggerite: oggi i rei, nella maggior parte dei casi, dovranno contare con una salata multa, ma non vi è più la minaccia che a loro si aprano, come in precedenza, le porte delle patrie galere. È anche vero che, come diceva Carnelutti, l’Italia ha più di duecentomila leggi, per fortuna temperate da una generale inosservanza e i reati di opinione, fortunatamente, non si trovano in cima ai pensieri dei patri pubblici ministeri.

I liberali compilatori del codice penale spiegavano nella relazione introduttiva che i delitti di vilipendio rispondevano all’esigenza di evitare che le istituzioni, le entità e i simboli dello stato siano scalfiti nella loro considerazione generale, con conseguente pregiudizio del principio di autorità. Come avrebbe potuto capire il duce che in realtà gli ottimi giureconsulti stavano scherzando e che sotto sotto gli stavano presentando un codice penale che era un modello non di autoritarismo ma di libertà?

Che vuol dire vilipendere? Secondo il dizionario Treccani il vocabolo in questione deriva dalla corruzione dell’espressione latina nihil pendere (non valutare per nulla) e significa “colpire col proprio disprezzo espresso, in forma aperta e gravemente offensiva, con parole scritti o atti; disistimare, disprezzare apertamente”. Si tratta, quindi, di una forte e veemente manifestazione del pensiero, indirizzato in modo assai negativo contro il proprio oggetto. D’altro canto, i pensieri sono così: infiniti, liberi, incontrollabili; ce ne sono di delicati e gentili, ma tanti anche di scorretti e offensivi. Quando si pensa alle istituzioni poi, non di rado l’esasperato cittadino si fa scappare uno scorretto e poco istituzionale ma liberatorio “piove governo ladro”.

Delle due l’una, quindi: o i delitti di vilipendio contrastano con l’art. 21 della costituzione, oppure il diritto di manifestare il proprio pensiero non è, poi, tanto libero. Gli italici magistrati, che, come abbiamo visto, sono tra coloro che non si possono vilipendere, propendono decisamente per la seconda interpretazione.

Per costoro tutte le opinioni si possono esprimere, ma non quelle che comportino disprezzo per l’accozzaglia di persone, concetti astratti, gruppi e oggetti materiali elencati dai delitti di vilipendio del codice dei liberali promulgato dal duce. Sebbene nulla si dica nell’art. 21 della costituzione in merito a presunte limitazioni del diritto di manifestazione del pensiero, i supremi magistrati sono dell’opinione che i delitti di vilipendio siano perfettamente compatibili con la costituzione. Infatti, la libertà di manifestazione del pensiero non sarebbe “impedita dalla previsione del reato di vilipendio, il quale richiede una condotta volta a tenere a vile, a ricusare qualsiasi valore etico, sociale o politico all’entità cui la manifestazione è diretta, sì da negarle ogni prestigio, rispetto, fiducia e in modo da indurre i destinatari della manifestazione al disprezzo delle istituzioni o – addirittura – ad ingiustificate disobbedienze” (Corte Costituzionale 30 gennaio 1974). In soldoni: tutto si può dire, ma non si possono disprezzare le mitiche istituzioni.

Va detto anche che la parte in cui la Consulta aggiunge l’induzione al disprezzo e alla disobbedienza è un’aggiunta degli ermellini. Infatti, gli articoli del codice penale non dicono nulla in proposito e si limitano a punire il disprezzo.

Si dirà che la sentenza è vecchia, risale al 1974, quando l’Italia era nel bel mezzo di una stagione drammatica: contestazione studentesca, terrorismo e via elencando. Ora i tempi saranno cambiati. E invece no. La Cassazione, anch’essa appartenente al novero delle istituzioni che non si possono vilipendere, ha recentissimamente ribadito (con la sentenza n. 35988/2019 del 13 agosto 2019) che la tutela del decoro e del prestigio delle istituzioni non consente l’uso di espressioni di offesa, disprezzo e contumelia. In particolare, non è consentito pubblicare un post su Facebook rivolgendo alla repubblica italiana – che Iddio l’abbia in gloria – l’espressione “stato di merda”.

Questo è un pensiero, infatti, che è consentito avere solo nel segreto della propria mente, ma non lo si può comunicare agli altri. Una sorta di bestemmia civile, dunque, con l’unica differenza che mentre la chiesa puniva non solo le opere e le parole, ma anche i pensieri, le istituzioni ci lasciano liberi di pensare ciò che vogliamo, purché, beninteso, avremo cura di tenere i pensieri per noi. Ecco come va intesa l’orgogliosa affermazione della carta costituzionale secondo cui tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Tutti quelli che hanno i pensieri giusti, s’intende; gli altri, quelli che davanti all’indegno spettacolo della repubblica italiana siano tentati di manifestare in modo scurrile ma efficace tutta la loro disistima per le istituzioni seguendo le orme del Visconte di Cambronne, comandante della Vecchia Guardia napoleonica, dovranno starsene zitti. Oppure pagare la multa nelle rapaci mani delle venerabili istituzioni.

Il pateracchio giurisprudenziale e costituzionale dei reati di opinione è indicativo della grande confusione che regna nell’ordinamento italiano che, invece di essere fondato su solidi principi, poggia su basi confuse come il lavoro, la sovranità popolare e simili concetti molto vaghi e fumosi. Un ordinamento liberale sarebbe fondato, invece, sul principio di non aggressione e cioè il canone giuridico che vieta di iniziare la forza contro un altro essere umano pacifico. Non è un principio nuovo. L’aveva già detto, circa 1800 anni or sono, Eneo Domizio Ulpiano: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.» (“La giustizia consiste nella costante e perpetua volontà di riconoscere a ciascuno il suo. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri, riconoscere a ciascuno il suo”).

Un’opinione, per quanto scorretta, maleducata, malamente espressa od offensiva non è un’aggressione e, pertanto, non può essere punita da un punto di vista giuridico perché esula dal perimetro del principio di non aggressione. Beninteso: ciò non toglie che l’opinione di cui si tratta possa travalicare le regole della morale e della buona educazione, ma questo non è l’ambito del giurista che deve occuparsi, come è stato efficacemente detto, del minimo etico, delle condizioni basilari affinché la società possa funzionare. Ciò detto, vivere secondo diritto non significa essere una persona retta; serve ben altro, ma nel momento in cui il legislatore voglia imporre i suoi principi morali con i mezzi del diritto lì finisce una società libera e comincia la dittatura.

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