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L’importanza di essere oneto, un dovere morale non dimenticarlo

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onetodi STEFANO BRUNO GALLI

Ci teneva davvero tanto, Gilberto, a quel cognome così strano e così originale, che lui usava più del suo nome di battesimo. Anche se ci conoscevamo da tantissimi anni – una trentina – solo con il cognome continuava a firmare le tante mail che ci siamo scritti fino a pochi giorni fa. E al suo cognome aveva addirittura dedicato un suo recente libretto, forse il più stravagante: L’importanza di essere Oneto. Storia, numeri e miti di una piccola tribù ligure (Ligurpress, 2013).

Ci scambiavamo sempre i nostri libri. E quando me l’aveva omaggiato, ricordo benissimo come – incuriosito – mi misi subito a leggerlo, la sera stessa. “Gli Oneto – è scritto nell’aletta di copertina – sono una piccolissima tribù originaria del Levante ligure che si è sparsa in Europa e in America. Ci sono circa 500 Oneto in Italia e meno di tremila in tutto il mondo: una goccia in un mare immenso che però non si è diluita, ha mantenuto il suo sapore e i suoi caratteri. Non importa dove si siano trasferiti e con chi si siano accasati: gli Oneto continuano a essere uguali a sé stessi. La comunità è minuscola ma è piena di gente che ha raggiunto grandi traguardi professionali, artistici, culturali e lavorativi: tutti si danno un gran da fare”.

Questa grande dedizione al lavoro era, senza ombra di dubbio, uno dei tratti distintivi del suo carattere ed era alla base della sua attività di instancabile animatore culturale e di scrittore assai prolifico; attività indisgiungibile dalla sua forte vocazione e sensibilità ideologica di matrice radicalmente autonomista per la giusta e necessaria libertà dei popoli padano-alpini. Un’attività che affonda le proprie radici nella seconda metà degli anni Ottanta, quando ci siamo incontrati e conosciuti – e io portavo davvero i calzoni corti – attorno a quel cenacolo di autonomismo qual era la rivista Etnie, diretta da Miro Merelli. Da allora non ci siamo più persi di vista, abbiamo sempre tenuto accesi i contatti, sino a pochi giorni fa.

Per certi versi, i suoi Quaderni Padani hanno raccolto l’eredità di Etnie. Gilberto aveva intimamente gioito quando, nella mia nuova veste di consigliere regionale, avevo assunto una posizione molto forte contro la Voloire e l’esercito italiano, espressione del braccio coercitivo dello Stato e ospite assai invadente – e indesiderato – del Nord. Mi aveva dedicato un pezzo molto affettuoso, ricordando i trascorsi comuni, e aveva sottolineato come la severa censura delle mie parole proveniente addirittura dall’allora ministro della Difesa dovesse essere interpretata come una sorta di coccarda da appuntarsi al petto e di cui andare fieramente orgogliosi.

Spesso abbiamo duettato sui giornali on line, che – con la sua intelligenza e la sua tenacia – ha animato negli ultimi anni. A tenerci uniti eppure schietti e molto diretti nel dialogo era l’antica e consolidata amicizia; un’amicizia che ci portava anche a parlare delle nostre giacche di artigianato sudtirolese. Eppoi c’era un tema sopra tutti: la questione settentrionale. Mi prendeva in giro quando parlavo, semplicemente, di Nord, come se alludessi ai paesi scandinavi. Entrambi abbiamo dedicato a questo argomento – cioè alla questione settentrionale – molte fatiche. Era un tema che ci appassionava molto e sul quale discutevamo spesso. Lui aveva un approccio più culturale-identitario rispetto al mio, eminentemente storico-politico ed economico-produttivo, quindi anche fiscale, per effetto della mia formazione e del mio mestiere. Due approcci che ben s’integravano: alla fine non potevamo che registrare una significativa convergenza, che ci portava a commentare molto criticamente le vicende del nostro presente.

Alla fine di ottobre, tre settimane fa, avremmo dovuto partecipare insieme a un incontro culturale sulla Prima guerra mondiale – tema al quale, come noto, Gilberto aveva dedicato il suo ultimo libro – promosso dall’associazione La Fara, a Monza. Il titolo era molto accattivante: “4 novembre, infamia o gloria? Quando l’Italia cominciò a tradire il Nord”. Sul palco erano previste le relazioni di Gilberto, di Andrea Rognoni e di chi scrive. Tutti e tre ci conosciamo da trent’anni e siamo cresciuti nell’ambiente di Etnie, unica realtà culturale autonomista e federalista nel soffocante mare magnum patriottardo del craxismo e della crisi della Prima repubblica.

Nell’intreccio di telefonate che hanno preceduto quell’evento, ci eravamo ripromessi di trattenerci, dopo l’incontro, davanti a una birra, come ai vecchi tempi. E abbiamo scherzato sulla sequenza anagrafica quasi cabalistica che ci separa e ci unisce: 69 anni Gilberto, 59 anni Andrea, 49 anni io. Chi l’avrebbe mai detto che, a distanza di trent’anni da quell’incontro, ci saremmo incontrati ancora – con i nostri libri, le nostre ricerche e le nostre conferenze – sui temi di sempre, cioè la Grande Guerra e la sua contro-storia, l’autonomia, il federalismo e la secessione? Temi tenuti insieme da quel grande sogno chiamato “Padania” e dal nostro entusiasmo intellettuale: lo stesso di allora, di trent’anni fa.

Purtroppo Gilberto quella sera non è venuto a Monza. Stava già male e non se la sentiva. Ci eravamo incontrati a cena all’inizio della scorsa estate e mi aveva confessato che le cose non andavano per nulla bene. Per quella sera mi aveva consegnato – nel tardo pomeriggio – un intervento scritto, che Andrea e io abbiamo poi commentato. E all’inizio dell’incontro aveva rivolto un saluto telefonico al pubblico presente in sala. All’indomani della conferenza mi ha chiamato per sapere com’era andata. Abbiamo parlato di tante cose. E ci siamo ripromessi di rivederci, proprio in questi giorni. Gli avrebbe fatto molto piacere, anche perché mi aveva confessato: “Sai, temo di non arrivare a Natale”. E il mio cuore si è bloccato davanti alle sue parole, così come si è bloccato a lungo stamattina, prima di trovare la forza per scrivere queste righe.

Condividere la vita con dei compagni affini per sensibilità ideologica, compagni speciali per quello che ti sanno trasmettere, compagni con i quali basta uno sguardo – quello di trent’anni fa – per capire che dietro c’è dell’altro, qualcosa di affascinante e misterioso che ci lega, è davvero entusiasmante. Quando perdiamo un compagno di cordata è uno nostro dovere morale non dimenticarlo e onorarne la memoria raccogliendo il testimone per continuare come prima, più di prima. Con un sorriso e con rinnovata determinazione, perché dentro di noi c’è qualcosa di più. E noi lo sappiamo, ne siamo consapevoli. Grazie Gilberto, ciao.

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