di ALESSANDRO MORANDINI
La non-violenza è diventata un imperativo, la priorità di ogni buon cittadino occidentale. Qualunque sia l’obiettivo che un gruppo sociale dichiara di voler raggiungere, agenti individuali che ricorrono a qualche forma di violenza non solo saranno sanzionati dallo stato, ma probabilmente anche biasimati dalla cosiddetta società civile.
E’ indispensabile, soprattutto nel mondo indipendentista, cercare di gettare lo sguardo un po’ più in profondità rispetto a descrizioni riduttive come quella proposta qui sopra.
Democrazia e processo federalista come antidoti alla violenza
Spesso si indica nella democrazia un antidoto alla violenza. Semplificando, non pochi indipendentisti sostengono che il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione di un popolo da parte di uno stato ed i conseguenti referendum secessionisti, sono gli strumenti mediante i quali possono essere risolte pacificamente le contese sulla sovranità. E’ per questo motivo che gli stati (quasi tutti) che non concedono questa opportunità sono qualificati dagli indipendentisti come stati autoritari o, addirittura, totalitari. Si parla, a giusta ragione, di totalitarismo soffice e democratico.
Si crede nell’esistenza di un processo, o forse di un provvidenziale senso delle cose, in virtù del quale la storia dell’occidente è diretta verso un incessante incremento della civiltà. La civiltà immaginata è una società senza violenza politica; per questo motivo l’Occidente, via via sempre più civile, prima o poi adotterà procedure democratiche per definire i confini di uno stato, per garantire ad una nazione di autodeterminarsi. Questa è, in ultima analisi, la credenza dell’indipendentismo ingenuo.
L’indipendentismo ingenuo
Gli stati democratici occidentali sono, attualmente, i più efficacemente e pesantemente armati del mondo; per scongiurare il pericolo della disintegrazione di uno stato, della rivoluzione, dell’eversione quando queste soluzioni rappresentano una minaccia per gli stati più potenti, attraverso le procedure tipiche delle democrazie rappresentative si continua ad usare la violenza in forma mirata, preventiva, o, ove necessario, anche di massa.
Ma va ricordato che è improbabile che queste constatazioni possano introdurre nel pensiero dell’indipendentismo ingenuo un dubbio o, quantomeno, un iniziale motivo di critica alla sopraesposta credenza, che poggia su profonde radici, diramazioni minori ed inesatte della fede nella religione dell’amore. In realtà, come testimonia la storia europea, non è necessario rinunciare alla fede nella religione dell’amore, la fede cristiana, per poter mettere in discussione l’idea che la tendenza alla pace quale risultato del processo federalista non possa realizzarsi se è anticipata da una lotta, anche feroce, contro lo stato; nel nostro caso contro lo stato italiano.
La violenza
La violenza altro non può essere definita che come un intervento volto a distruggere interamente o parzialmente l’integrità di una cosa o di un essere vivente (in realtà la distruzione parziale di una integrità è una contraddizione, la cui soluzione introduce interessanti riflessioni). Si tratta di un concetto esteso, che si presta ad essere utilizzato con il fine di individuare un nemico. Ed in effetti è ciò che abitualmente si fa. Il nemico è sempre il soggetto che manifesta l’intenzione di distruggere una certa integrità, quando questa è considerata inviolabile. Alle volte ad ammettere la violabilità di un’identità è uno scopo superiore. Il chirurgo non usa violenza sul corpo del paziente, l’allevatore non usa violenza sull’animale domestico ucciso, la colonia di batteri non usa violenza sul malato terminale.
La non-violenza
Chi conosce la teoria e la pratica della non violenza, avendone letto o avendola esercitata, non solo è al corrente della forza, dell’invincibile potenza che scaturisce dal lento perseguimento dell’Aishma. Basterà citare una celebre frase ripetuta da Ghandi per rendere conto della portata dell’azione non-violenta: “Felicissimi coloro che si immergono nel fuoco, coloro che rimangono a guardare sono tutti bruciati dalle fiamme”.
Non ci si dovrebbe dimenticare che l’azione non-violenta implica la completa rinuncia all’egoismo, ai piaceri della vita, al desiderio di possedere cose. E lo stesso Ghandi non smette di ripetere che la Satyagraha non ammette compromessi, essendo orientata alla verità.
Ora, la domanda che le persone serie si dovrebbero porre è questa: che cosa c’entrano tutte queste cose con gli indipendentismi padani? L’attuale lotta per la liberazione del Veneto dall’occupazione italiana è parte del percorso di ricerca della verità ultraterrena?
Le lotte degli indipendentismi padani possono certo condurre alla riflessione sull’apparire, nella storia, dell’indipendentismo, sull’apparire della controparte italiana all’interno della necessità del destino. Ma si può escludere che la specifica battaglia per l’indipendenza dallo stato italiano possa assumere connotati di tipo religioso, quindi di tipo non-violento.
Le motivazioni che spingono gli indipendentisti a parlare di non-violenza sono ben altre e possono essere ricondotte ad alcuni atteggiamenti che Ghandi considerava inferiori alla violenza stessa.
Il timore di essere accusati di violenza
E’ probabile che il timore di essere accusati di violenza da chi difende l’integrità dello stato italiano sia una delle cause, non l’unica, per la quale non pochi indipendentisti dicono di dover abbracciare la lotta non-violenta, non conoscendone i termini.
L’élite culturale italiana ammette tra i comportamenti legittimi l’uso delle armi se esercitato all’interno del quadro normativo italiano. Ora, c’è uno stretto rapporto tra norma giuridica, nazionalità e cognizione della violenza. In linea di massima le élite italiane che affermano ed esprimono la cultura legittima, sono portate ad escludere attributi violenti ai comportamenti legali. La cognizione della violenza è il prodotto, certamente, di numerosi fattori; ma il pensiero della violenza può essere allontanato perfino da un evento quale l’uccisione di una persona. Un militare italiano che uccide un pescatore indiano non ha, agli occhi delle élite culturali italiane, usato alcuna violenza. Il timore di essere accusati di violenza è il timore di essere accusati dall’élite culturale italiana.
Come si è visto le motivazioni della lotta degli indipendentisti non rispondono ai criteri della non-violenza. E’ probabile che, invece, il timore di essere qualificati come violenti dalle élite che definiscono la cultura legittima e dalle persone che attivano, esprimendo emozioni di disprezzo e di biasimo, norme sociali che rispondono ai criteri diffusi dalle élite, sia conseguente ai desideri ed alle aspettative, cioè all’utilità attesa da parte dei leader delle organizzazioni indipendentiste rispetto ad azioni quali competizioni elettorali e manifestazioni di piazza autorizzate dallo stato italiano.
Noi siamo il loro nemico
Non ci si dimentichi che la disgregazione dello stato italiano è, dal punto di vista dell’Italiano, un obiettivo di inaccettabile violenza. Non ha senso chiedere ad un nazionalista italiano di ammettere una via referendaria alla definizione dei confini della nazione. Non ha senso, in realtà, chiederlo ad un nazionalista Spagnolo o ad un nazionalista Francese. Solo gli stati già federali possono permettersi questo lusso.
E tuttavia la distruzione dell’integrità dello stato italiano, quindi la violazione della sua identità, è un obiettivo per così dire consustanziale a tutti gli indipendentismi: padani, veneti o lombardi che siano. Perché allora si ha paura di essere accusati di violenza? Non sono forse i nostri nemici, lo statalismo, l’idolatria dello stato, il totalitarismo soffice ma insidiosissimo, a muovere questa accusa? E questa accusa, in fondo, non è vera?
L’indipendentismo è sempre violento
E’ facile immaginare che, alla bisogna, i difensori dell’integrità dello stato indicheranno in qualsiasi azione promossa dagli indipendentisti un’espressione della violenza. Non ci si dimentichi che le immagini diffuse dai media sono il necessario frutto di manipolazione, inquadrature, montaggio: costruiscono le “illusioni di realtà” che l’individuo fa sue. Molte persone che per vari motivi sostengono l’unità dello stato italiano accetteranno questa interpretazione perché, come si diceva, qualsiasi azione, anche minima, risponde ad uno scopo di estrema violenza.
L’intervento persecutorio della magistratura come indizio della pericolosità del nemico dello stato italiano
L’intenzione secessionista è già stata perseguitata dalla magistratura. E’ sufficiente l’intervento persecutorio dell’autorità giudiziaria per delineare nella mente del nazionalista italiano un potenziale pericolo nella persona del Secessionista; quindi suscitare i sentimenti di odio, di indignazione e di rabbia che tipicamente si rivolgono verso il nemico e che predispongono gli individui ad interpretare le azioni dell’altro come violente.
L’indipendentista veneto o padano che si preoccupa di come verrà giudicato il suo comportamento dal nazionalista italiano, complica inutilmente la battaglia politica; può addirittura ostacolarla o vanificarla. Non sa che la più pacifica manifestazione di piazza in difesa del proprio territorio, del proprio patrimonio, può, se occorre, essere configurata come una temibile azione collettiva, portatrice di inaccettabile disobbedienza e di violenza.
E’ per questo motivo che le blandissime e civilissime espressioni di difesa dai rapinatori di stato che le organizzazioni di Chiavegato e Busato mettono saltuariamente in atto, spaventano sicuramente più i cittadini italiani che lo stato italiano.
Lo stato italiano è quasi sempre la vittima
Nel senso comune il termine violenza è ridotto ad un’intensione del suo significato. La violenza politica equivale allo scontro, alla battaglia, al corpo a corpo, all’assassinio. Ovviamente nello scontro, nella guerra, nella violenza emergono due ruoli distinti: quello della vittima e quello del carnefice. Bisogna considerare che accanto a questa riduzione operata nel senso comune, esercita potentemente la sua funzione normativa una regola sociale che recita più o meno così: lo stato è sempre la vittima della violenza, perché l’integrità messa in pericolo è quella dello stato.
Naturalmente la suddetta norma opera principalmente tra le persone che credono nel nazionalismo italiano. E’ probabile che la norma morale diffusa nelle élite culturali italiane sia all’origine dell’analoga norma sociale.
In altre occasioni avevo proposto l’ipotesi che soprattutto in Veneto, ma in una certa misura in tutto il territorio padano, operino due norme sociali opposte: l’altra è quella per la quale dichiarando la propria piena e volontaria affiliazione allo stato italiano si è oggetto di disprezzo. E’ una norma che negli ultimi anni si è radicata in molte regioni del nord, ma che ha sempre caratterizzato le popolazione padane, per esempio nel giudizio negativo che abitualmente si dà dei lavoratori statali. Norme sociali opposte possono determinare il comportamento degli individui. E’ ciò che succede molto più frequentemente di quanto si pensi. Per questo motivo i sondaggi possono registrare un gradimento alto per l’indipendenza del Veneto, e contemporaneamente le adesioni alle organizzazioni indipendentiste non suscitano sempre gli entusiasmi che ci si potrebbe aspettare dalla lettura dei sondaggi.
I sondaggi restano comunque un utile strumento per diffondere l’informazione relativa al desiderio di indipedenza: una cosa è volere l’indipendenza, altra sapere che il desiderio è condiviso.
Norma morale, sociale e giuridica nella lotta tra unità dello stato ed indipendenza
Molte persone fanno propria la regola per la quale la violenza che i funzionari dello stato italiano esercitano sui cittadini quando avvengono scontri di piazza, scioperi, sit in di protesta etc. è giusta perché finalizzata a conservare l’integrità dello stato, ovvero la sua autorità, la sua presunta capacità di ordinare la società.
Bisogna distinguere le persone che osservano la suddetta regola in quanto norma sociale, dalle persone che la osservano in quanto norma morale o giuridica. Le norme morali sono molto rigide, non ammettono violazioni perché il sistema che le rende efficaci è tutto interno all’individuo: trasgredire una norma morale provoca senso di colpa. Il senso di colpa non ha bisogno di agenti esterni all’individuo per intervenire: è sufficiente la consapevolezza di aver deviato dalla norma. I nazionalisti italiani sono mossi, nella difesa dell’unità dello stato, da una norma morale.
Molte altre persone pensano ed agiscono, rispetto a questo tema, osservando una norma sociale. La norma sociale è meno rigida, perché è vincolata al giudizio che gli altri danno di noi. Se non c’è nessuno che ci giudica, la norma può essere anche tranquillamente violata senza che il trasgressore patisca sanzioni di alcun tipo.
Chi afferma, nei sondaggi o nelle relazioni pubbliche, di desiderare l’indipendenza dallo stato italiano risponde positivamente ad una norma morale contraria all’affiliazione al medesimo stato: in queste persone l’unica disposizione all’obbedienza allo stato italiano è conseguente all’efficacia delle norme giuridiche (ma provoca senso di colpa) ed all’adeguamento a norme sociali favorevoli all’affiliazione allo stato italiano.
Si noti che rispetto alla normalizzazione del comportamento, alcune norme sociali appaiono perfino più importanti delle norme morali. In alcuni casi e per alcuni individui è più facile trasgredire e poi sentirsi in colpa che rifiutare di conformare le proprie azioni a quanto richiesto dalle persone che possono osservare e giudicare il comportamento. In effetti è quanto succede molto spesso nel nord Italia relativamente al giudizio che viene pubblicamente dato del nazionalismo italiano da parte di chi un cuor suo desidera l’indipendenza e vota la Lega Nord.
Fallimento della razionalità individuale rispetto all’obiettivo indipendentista
Ci sono altri motivi per cui si desidera osservare il principio della pseudo non-violenza. E’ probabile che il timore di scontrarsi contro lo stato dipenda anche da un semplice e superficiale calcolo del valore atteso dalla battaglia e dalle complicazioni tipiche delle azioni collettive. (alle complicazioni delle azioni collettive vorrei dedicare un altro articolo)
La lotta contro lo stato italiano è rischiosa per vari motivi. Alcune forme di lotta possono portare a trascorrere una parte del nostro tempo nelle galere italiane. In questi casi, tra l’altro, è probabile che si manifesti una voluta eccezione alla ben nota inefficienza della giustizia italiana. In altri casi si può essere sanzionati economicamente o socialmente. Si possono perdere amici, o il sostegno di persone utili a garantire guadagni e lavoro.
Il calcolo razionale dei vantaggi attesi assumendo un atteggiamento fintamente non-violento, anche solo nelle parole che si usano, o rifiutando di partecipare ad iniziative che possono essere interpretate come violente solamente assumendo il punto di vista degli interessi dello stato italiano, si rivela irrazionale se il punto di vista assunto è quello autenticamente indipendentista. Privando l’indipendentismo di qualsiasi atteggiamento violento verso lo stato italiano, si escludono le opportunità offerte dall’investimento in credibilità e determinazione. Si tratta, nei rapporti negoziali, di un investimento indispensabile.
Agire
Ci sono azioni individuali che possono provocare effetti disastrosi per l’ente sanzionatore ma sono molto pericolosi per l’agente. In questi casi l’utilità attesa dall’agente non è sufficientemente alta da spingerlo all’azione: non potendo rivelare la sua identità non può beneficiare dei premi che l’istituzione degli indipendentismi padani e veneti potrebbe immediatamente attribuirgli (premi in prestigio e status). La rarità di queste azioni è dovuta alla combinazione tra scarsa utilità attesa dall’agente e relativa efficacia dell’azione. L’agente è mosso unicamente da premi di natura morale, dalla gratificazione tipica di chi sa di aver agito in onore alla giustizia.
La maggior parte delle azioni collettive promettono minori rischi ma la loro efficacia dipende dalla dimensione dell’azione, dalla quantità di persone coinvolte e dal tipo di azione stessa. Uno sciopero fiscale effettuato su larghissima scala è definitivamente vincente. Solo le grandi organizzazioni dell’istituzione degli indipendentismi padani possono realizzarla. La semplice capacità di realizzare operazioni di questo tipo, violentissime dal punto di vista del nazionalismo italiano, concede alle medesime organizzazioni un grande potere. Nei contesti negoziali una dichiarazione di azione deve essere seguita dall’azione: costituisce un investimento in credibilità (una minaccia credibile). La Lega Nord può permettersi di dichiarare ripetuti scioperi fiscali senza metterli in atto grazie alla sua dimensione. Tutti sanno che, se decidesse seriamente di farlo, potrebbe realizzare uno sciopero fiscale di interessanti proporzioni. La Lega Nord gioca quindi sul fatto che può realizzare una lotta vincente ma i suoi militanti preferiscono evitarla per non correre rischi personali.
Le manifestazioni pacifiche, plebisciti o manifestazioni di piazza, sono diventate azioni collettive che non richiedono importanti costi o rischi individuali e, indipendentemente dal numero di persone coinvolte, non hanno effetti sensibili in termini di lotta contro lo stato italiano. Ma costituiscono un importante veicolo di propaganda per le organizzazioni ed un’opportunità per le persone che ambiscono a costruirsi carriere politiche o di rappresentanza dell’istanza indipendentista; inoltre soddisfano le attese del militante, motivato più dalla partecipazione che dal risultato. Sono azioni che raggiungono un, mi si perdoni la forzatura, ottimo paretiano e per questo motivo sono le più praticate, non solo in Italia.
Se ci si limitasse a considerare queste azioni collettive rispetto alla loro efficacia relativamente alla lotta indipendentista, dovremmo invece ammettere che sono, oramai, praticamente inutili, anche se è probabile che nel recentissimo passato abbiano contribuito, in modo più efficace dei sondaggi, a diffondere l’informazione sulla dimensione o quantomeno sulla presenza del desiderio indipendentista.
Conclusioni
Dal punto di vista della lotta indipendentista contro lo stato italiano, lotta finalizzata alla sua disintegrazione, penso che sia urgente riflettere e pensare alle modalità con cui si intende raggiungere questo obiettivo; almeno tanto urgente quanto definire il progetto che dovrà essere implementato una volta realizzata l’indipendenza, come giustamente ripete da anni Trentin.
Privandoci di questi due importanti chiarimenti, l’uno dei quali implica anche una efficace organizzazione, siamo destinati a non veder mai realizzata l’indipendenza dallo stato italiano ed anzi rafforzata la sua unità e la sua insistenza sulle nostre vite e sulla vita dei nostri figli e dei nostri nipoti.
L’organizzazione dell’indipendentismo non implica la sua riduzione ad un unico partito, ma, attualmente, la volontà, la buona disposizione da parte dei leader delle singole organizzazioni a produrre costanti, intense e risolutive situazioni negoziali.
Nel contesto negoziale occupato dall’istituzione degli indipendentismi padano-veneti e dallo stato italiano, quest’ultimo possiede ormai un importante vantaggio: lo stato italiano può credere che le organizzazioni indipendentiste non possono raggiungere consensi maggiori di quelli che già possiedono e può credere, grazie alle dichiarazioni di non-violenza ed alla esibizione di ordinate e composte manifestazioni di piazza, che le medesime organizzazioni sono orientate unicamente dal desiderio di incrementare i consensi, per competere nell’allocazione del proprio personale negli uffici delle istituzioni italiane. Quanto basta per rifiutare senza timore qualunque proposta referendaria da parte degli indipendentisti; quanto basta per affermare definitivamente la sovranità di Roma mediante corruzione, clientelismo, campanilismo.
Penso che le sigle siano importanti. Si chiamano No Tav e non rivendicano l’indipendenza dallo stato italiano: sono contro un opera, non contro uno stato. Rifiutano la costruzione di un opera sul loro territorio, non difendono il loro territorio dall’occupazione italiana. E non rappresentano un popolo.
L’articolo è bellissimo, uno dei più belli che ho letto direi. Però le persone comuni, radicali a parte, quando dicono “non violenza” pensano semplicemente a non sparare, non mettere bombe, non fare terrorismo, e cose del genere. Prendiamo i No Tav come esempio concreto, lasciamo stare per un attimo quello che pensano (molti magari sono di sinistra e pensano di stare combattendo il capitalismo) e giudichiamo quello che fanno: violano zone “proibite”, danneggiano attrezzature e macchinari, se la prendono con gli operai, etc.. Si tratta di gesti violenti, anche se relativamente blandi rispetto a quelli che ho citato sopra, fatti in opposizione a un’opera imposta dall’alto, agli espropri, alla spesa di soldi pubblici e fatti anche rivendicando la così detta “autonomia dei territori”. Lasciamo stare anche la questione se siano dannosi dal punto di vista del consenso o efficaci per fermare l’opera (probabilmente sono dannosi e inefficaci). Ma dal punto di vista morale e politico tu ti senti di giustificarli?
Anche tenendo presente quanto scrive Hoischen in un articolo precedente: https://www.miglioverde.eu/hoischen-stato-crimine-giustificazione-criminale/