La famosa frase attribuita a Lincoln, Si può ingannare tutti una volta, qualcuno qualche volta, mai tutti per sempre, non sempre è vera. Non lo è sicuramente con riferimento agli effetti espansivi sul reddito nazionale delle manovre finanziarie dei governi. Qui, dopo decenni di inganni, si continua a far credere, che i deficit, consistenti nello spendere di più di quanto si raccoglie in tasse, aumentino il flusso di ricchezza di un paese.
Prima di tutto non si hanno prove empiriche che questo sia mai accaduto, e non si hanno proprio perché è logicamente impossibile che lo stato abbia la capacità di creare ricchezza. I deficit possono solo avere effetti inflazionisti o redistribuivi: aumentano la ricchezza di qualcuno solo sottraendola a altri. Per evitare di continuare a farsi ingannare bastano poche, elementari considerazioni.
Se i deficit creassero ricchezza reale a beneficio di tutti, che bisogno avrebbe lo stato di tassare il settore privato? Lo stato, attraverso i deficit, potrebbe finanziare le proprie spese in modo autonomo senza, appunto, tassare. L’incidenza del debito sul Pil diminuirebbe e successive generazioni di deficit ridurrebbero il debito complessivo. Ma accade esattamente il contrario.
La spiegazione risiede nel fatto che lo stato non è in grado di creare ricchezza in modo autonomo perché dipende interamente dal settore privato da cui riscuote il reddito nella forma di tasse. I deficit sono dunque “i soldi degli altri” che lo stato pretende di spendere meglio di coloro a cui li sottrae. Purtroppo in questo processo di sottrazione non solo li spreca ma distrugge pure gli incentivi a crearli.
L’unica manovra espansiva sarebbe quella di tagliare la spesa pubblica per ridurre le tasse. Ma quando mai si è visto uno stato prendere l’iniziativa di ridimensionarsi e ridurre il proprio reddito? Come farebbe a ingannare di nuovo l’elettorato promettendo nuove miracolose crescite in cambio di voti? L’unica crescita sicura è il debito che riduce quella economica. Il deficit è infatti l’incremento del debito totale che, a sua volta, è la somma di generazioni di deficit proprio perché questi non si auto-ripagano mai.
Non esiste un processo di crescita economica al di fuori dell’economia privata. Non è un’opinione è la logica. Tutto ciò che lo stato spende deve prima essere o preso in prestito o sottratto con le tasse al settore privato. Ed è proprio perché lo stato rastrella e non guadagna i soldi per finanziare i suoi programmi che la sua azione è affine a quella di puro consumo. Ma a differenza dei consumatori ordinari, che ottengono i loro redditi attraverso lo scambio volontario, lo stato ottiene il suo reddito mediante la tassazione forzata. Non comprendere tutto questo è volersi fare ingannare.
Da quanto sopra consegue che qualsiasi spesa dello stato non può mai qualificarsi, in senso stretto, come investimento. Investire, in senso economico, significa impiegare ricchezza attuale per ottenere maggiore ricchezza futura in grado di ripagarla e rilasciare un eventuale surplus. In senso finanziario significa generare un flusso di cassa disponibile per soddisfare finanziatori, investitori e creditori. I deficit dello stato hanno forse qualcosa a che fare con tali definizioni?
Ma allora come valutare il finanziamento delle opere pubbliche? Le opere pubbliche non sono investimenti, sono, invece, (ammesso che siano veramente necessarie) costi generali o di struttura che la collettività dei contribuenti deve di necessità sostenere per rendere possibili le vere attività generatrici di reddito che sono solo gli investimenti privati. Le opere infrastrutturali stanno all’economia come le spese generali stanno a un’impresa. Non sono queste a creare reddito, ma i prodotti che l’impresa vende e che ripagano le spese generali. Lo stesso per le opere pubbliche, sono come spese generali: di per sé non promuovono la crescita perché sono la conseguenza della crescita. La rivoluzione industriale non è iniziata con ponti, strade e canali e ferrovie, ma con macchine destinate al lavoro di precisione cioè con l’industria dell’utensileria nel tessile e nella siderurgia. La redditività territoriale indiretta delle infrastrutture pubbliche è funzione della redditività diretta degli investimenti privati.
Gli investimenti pubblici danno l’illusione di creazione di ricchezza solo perché creano occupazione immediata. In realtà il lavoro creato non rilancia affatto l’economia in quanto è solo temporaneo e solo per alcuni lavoratori mentre le risorse per finanziare il deficit devono essere estratte dal settore privato riducendo pertanto la sua capacità complessiva di creare posti di lavoro. Quindi, nel migliore dei casi, possono solo modificare la composizione dell’occupazione, non il volume totale. Vengono creati più posti di lavoro nel settore pubblico, ma a scapito di un minor numero di posti di lavoro in quello privato.
Questa semplice verità venne ben compresa più di un secolo e mezzo fa dall’economista francese Frederic Bastiat che sosteneva che “Ogni volta che lo stato apre una strada, costruisce un palazzo, ripara strade o scava un canale dà lavoro a certi lavoratori. Questo è ciò che si vede. Ma priva altri lavoratori del lavoro. Questo è ciò che non si vede”.
Certo, il deficit stimola l’occupazione nelle industrie manifatturiere degli strumenti e dei macchinari e nelle industrie delle materie prime, ma lo stimolo va a scapito di un minor numero di posti di lavoro nel settore privato. Questa è la conseguenza inevitabile del deficit nell’economia: Un euro speso in investimenti pubblici è un euro in meno speso in investimenti privati e basterebbe questo a smascherare la bufala del cosiddetto moltiplicatore del reddito. A meno di non credere che un euro speso dallo stato valga di più di un euro speso dal privato…
A riprova: se fosse vero che le opere pubbliche producono ricchezza non si capisce perché gli stati totalitari, artefici di colossali infrastrutture e anche di intere nuove città, invece di economie floride hanno creato economie di sussistenza, generato indigenza e scarsità di beni di prima necessità.
Ma al di fuori degli investimenti pubblici che creano lavoro senza creare ricchezza, a che servono tutti gli altri programmi finanziati in deficit se lo stato non ha capacità autonoma di creare ricchezza? Servono a creare schemi di confisca travestiti da manovre espansive per distribuire, in cambio di voti, denaro a uno sterminato elettorato che vive sugli sprechi. Per questo motivo l’economia, diventata dipendente dai deficit, è ormai fuori controllo e continuare a parlare di crescita quando il collasso è alle porte, è un altro inganno.
Quando si legge il Prof. Coco si respira aria pura.