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L’ultimo dei Notabili dell’Italia che fu. Un ricordo di Antonio Martino

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di PAOLO L. BERNARDINI

Si è svolta, presso Lodi Liberale, un’interessante serata, il 5 aprile 2022, in ricordo di Antonio Martino. Vi ho preso parte da Como, in attesa di partire per Amburgo. I relatori erano Nicola Porro, Francesco Perfetti, e Raimondo Cubebbu, è poi intervenuto anche Don Beniamino di Martino. Non avendo mai conosciuto di persona Martino, non posso che parlarne sulla base delle opere. Anch’esse sono raramente sistematiche, anche gli scritti pubblicati dal Liberty Fund, Promises, Performance, and Prospects. Essays on Political Economy, 1980–1998, un voluminoso libro del 2005, sono scritti d’occasione. Nulla di male, peraltro, il liberalismo classico (e anche il pensiero libertario) si esprimono meglio, per il grande pubblico, attraverso scritti limitati come dimensioni ma incisivi. Vi sono tuttavia alcuni aspetti, a mio parere, nella personalità di Martino, che, se presi in esame in modo “semplicemente liberale”, per citare il titolo della sua raccolta di saggi presso Liberilibri (peraltro, seguita da “Liberalismo quotidiano”, altra raccolta di saggi, credo l’ultima), lasciano un pochino interdetti. Proprio su questo giornale Martino venne giustamente criticato da Fabrizio del Col in un articolo dell’ottobre 2012, a proposito dell’idea martiniana di abolire le regioni e ridurre i comuni al numero astratto di 2000. Del Col scrisse in quell’occasione:

  • «L’editoriale martiniano prosegue poi con una analisi e l’elencazione dei costi di tutti gli enti locali e in particolare si sofferma ancora sull’abolizione delle Regioni: “Le regioni, infatti, non possono essere considerate enti locali; la Lombardia ha quasi dieci milioni di abitanti, la Sicilia cinque, non sono dimensioni da ente locale ma da Stato autonomo” e poi Martino conclude con la sua ricetta di riforma: “Si aboliscano, quindi, le regioni e le province, si riduca a duemila il numero dei comuni e si conferiscano a essi le competenze degli enti aboliti. Avremmo un periodo di aggiustamento durante il quale sarà necessario occuparsi del problema del personale in esubero degli enti aboliti ma, alla fine, avremo un sistema di governo locale efficiente, razionale e molto meno costoso dell’attuale”. In sostanza, vista la tesi conclusiva qui sopra esposta, ad occuparsene sarà inevitabilmente uno Stato ancora più unitario, più centralizzato, più costoso e corrotto di quello che già conosciamo. Nel frattempo, cosa pensa di tagliare l’economista Martino sui costi dello Stato come gli appalti, il pubblico impiego, le società pubbliche etc…, che imperterriti continuano ad aumentare»?

Può il “semplice liberalismo” fare tutt’uno col centralismo? Credo di no. Il 23 novembre 2013 sempre su queste pagine un autorevole intervento di Claudio Romiti metteva Martino, per dir così, davanti ai propri limiti, soprattutto nel sostenere ancora un partito, Forza Italia, che aveva ampiamente dimostrato, ma dall’inizio della sua vita, di non essere in grado e/o di non volere mettere mano alle riforme liberali annunciate nel programma inaugurale, opera dello stesso Martino, nel 1994. Vale la pena di riportare qui l’articolo di Romiti per intero:

  • «Antonio Martino è stato senz’altro all’inizio degli anni novanta un grande punto di riferimento intellettuale per molti di quegli autentici liberali che auspicavano un forte ridimensionamento dello Stato, a vantaggio dello sviluppo della cosiddetta società spontanea. Tant’è vero che l’allora celebrato professore ispirò in prima persona il rivoluzionario programma di Forza Italia. Ricordo che nell’imminenza della discesa in campo del Cavaliere, mi recai insieme a due cari amici nella casa romana dello stesso Martino. Fu un colloquio piuttosto interessante, in cui il futuro ministro degli Esteri del primo governo Berlusconi espresse con grande convinzione il proposito concretizzare, almeno in parte, il suo coerente bagaglio di idee liberali. Poi, ahinoi, le cose andarono in modo molto diverso. L’esecutivo del ’94 cadde miseramente dopo pochi mesi, non senza aver provveduto – come ha spesso ricordato Oscar Giannino – a battere il record giornaliero dell’indebitamento pubblico (circa tre volte quello che fece registrare il governo D’Alema qualche anno dopo), e le cose andarono ancora peggio in seguito: nella legislatura 2001/2006, nella quale il Cavaliere poteva contare su una maggioranza bulgara, pur beneficiando del crollo dei tassi d’interesse determinato dall’entrata nell’euro, il centrodestra fece letteralmente esplodere la spesa pubblica, perdendo una storica occasione per riequilibrare una condizione finanziaria destinata a condurre il sistema Paese nel baratro. Non solo. In tutto il ventennio berlusconiano, sia dai banchi della maggioranza che da quelli dell’opposizione, da parte del Pdl-Forza Italia nulla di sostanziale è stato realizzato, o almeno tentato, sul piano della riduzione del perimetro pubblico e delle sue troppe ed invasive competenze, così come ha continuato a predicare Martino (che almeno abolì la leva obbligatoria), pur restando sempre incollato alle comode poltrone parlamentari messe a disposizione del suo leader-padrone. Per la verità, si è spesso avuta notizia di aspri scontri tra lo stesso Martino e il ministro dell’Economia Tremonti, accusato dal primo di seguire una linea del tutto contraria ai principi del liberalismo. Tuttavia ciò non ha impedito a Martino di rimanere intruppato nel serraglio politico di Silvio Berlusconi, intonando all’occorrenza il sublime inno del berlusconismo: “Meno male che Silvio c’è!” E così ha fatto, venendo ai giorni nostri, durante la farsa celebrata al Centro congressi dell’Eur a Roma, in cui un Berlusconi traballante ha rifondato Forza Italia. Antonio Martino era tra i più entusiasti sostenitori di tale “svolta” ad applaudire alla bulgara in piedi in prima fila. Applaudiva alla grottesca riproposizione di una ricetta giusta, basata su presupposti corretti ma, ahinoi, sostenuta ancora una volta da un personaggio che ogniqualvolta si è trovato a governare il Paese di Pulcinella ha fatto esattamente il contrario di ciò che aveva promesso, superando sul piano numerico i suoi tanto bistrattati avversari “comunisti”. “Si possono ingannare alcuni per tutto il tempo, molti per un po’ di tempo, ma non si possono ingannare tutti per tutto il tempo”, disse Abramo Lincoln. Eppure il grande economista Martino, nonostante il mare di buone intenzioni liberali e liberiste espresse nei suoi innumerevoli interventi, si ostina a farsi volontariamente ingannare da un oramai conclamato venditore di fumo, simile in questo a tanti altri politici professionali della nostra democrazia fallita. E malgrado gli imperdonabili fallimenti del passato, uniti all’attuale linea politico-programmatica folle – molto centrata sull’idea di convincere la Germania e soci ad aumentare la massa monetaria per coprire i nostri disastrati conti pubblici -, l’autorevole professore messinese mostra una incrollabile fiducia in Berlusconi e nella rinata Forza Italia. Egli probabilmente non vincerà per questo il Nobel, ma sicuramente il premio fedeltà nessuno glielo potrà portare via.»

Ora, dall’incontro del 5 aprile non ho appreso quali fossero gli elementi teorici innovativi nel pensiero di Martino, se ve ne siano stati, se in qualche modo durante la sua ventennale attività parlamentare con mandato ministeriale abbia dato un contributo alla trasformazione in senso liberale dell’Italia. Che non è avvenuta. Solo è stato ripetuto mille volte che è stato “un liberale”. Dal mio punto di vista personale, l’ho sempre visto come l’ultimo dei Notabili dell’Italia che fu, siciliano come Crispi – per troppi aspetti – e legato a quel liberalismo cavouriano che poi, nel tempo, si è trasformato nell’esatto contrario del liberalismo stesso.

L’insufficienza del liberalismo italiano l’ha incarnata, sofferta, e superata un sodale di Martino, di quindici anni più anziano, Sergio Ricossa – che in tarda età si è convertito a quella nuova forma – unica teoreticamente legittima, unica contemporanea, invero, nel senso di “in grado di affrontare il tempo presente con strumenti liberali” – di liberalismo che ne è la naturale palingenesi, il libertarismo. Un giovanissimo Alberto Mingardi curata presso Facco editore, nel 1999, “Da liberale a libertario” di Ricossa.

Ci sono parole di Ricossa che fanno capire come dal bruco del liberalismo ottocentesco, giunto poi con Luigi Einaudi ai suoi maggiori sviluppi, senza poter andare oltre se non diventando caricatura di se stesso (e forse, contradicendo nell’azione le sue stesse, invecchiate e obsolete, premesse teoriche), per forza debba svilupparsi la farfalla del libertarismo:

  • «Cinquant’anni fa mi pareva sufficiente dichiararmi, a richiesta, liberale einaudiano. Allora esisteva pure un partito liberale italiano, al quale credo di essere stato iscritto e del quale ho perso le tracce. L’ingenuità della giovinezza mi impediva di pensare che la libertà fosse più stuprata delle donne e che il suo stupro fosse il più impunito dei delitti; mi impediva di pensare che il voto democratico fosse, il più delle volte, fra le forme più truffaldine di abuso contro gli elettori. A poco a poco mi convinsi che c’era da vergognarsi a portare l’etichetta di liberale, ed era mortificante precisare: liberale einaudiano. Il fatto era che il povero Luigi Einaudi, sconsolato scrittore confesso di “prediche inutili”, riceveva omaggi informali soprattutto da coloro che in politica si impegnavano a realizzare il contrario delle sue idee. Scoprii che Luigi Einaudi era stato eletto presidente della Repubblica da partiti che desideravano sbarazzarsi di lui: “promuovere per rimuovere” (si sapeva che egli sarebbe stato un presidente neutrale). Oggi mi pare di intuire che, se l’Italia beatificherà un Einaudi, non sarà il padre Luigi, bensì il figlio Giulio, filocomunista, recentemente scomparso. Quanto ai partiti, mi resi conto che era tempo perduto bazzicarli, se non si mirava a una carriera politica redditizia al proprio portafogli e al proprio gusto di potere. Trovai le etichette dei partiti spudoratamente ingannevoli, nella pessima democrazia italiana».

Martino, che non possedeva la caratura teorica di Ricossa, non compì mai questa doverosa conversione. Rimase in qualche modo attaccato al tempo che fu confidando in Berlusconi come Cavour in Napoleone III e Vittorio Emanuele II.

Figlio di un grande europeista, nipote di un Antonio Martino figura fondamentale in Sicilia tra Otto e Novecento, Martino fu l’ultimo rappresentante – ampiamente fuori tempo massimo – di un’Italia “dei notabili” qual la definì bene, e nel bene, e nel male, Indro Montanelli, nel libro del 1973 che porta questo nome. E allora si comprende bene la diffidenza verso il decentramento, l’ostinata fedeltà a sedicenti propagatori del liberalismo – con la proterva ingenuità, fino alla fine, che li porta perfino a creare una “universitas libertatis” dove mi pare non insegni nessuno dei notevoli liberali italiani che io conosco (ma forse ne conosco pochi) – e il legame fondativo alla fine non con la scuola austriaca, ma con i monetaristi di Chicago? Veri liberali? Per certi aspetti, finché però le loro idee oscillanti non vengono interpretate, dagli attori politici, in modi del tutto illiberali. Cosa che difficilmente potrebbe avvenire per le idee della scuola austriaca.

Detto questo, in qualche modo il miglior lavoro che uno storico potrebbe fare, accostandosi a Martino, è quello di scrivere una storia della sua famiglia. Nel 2020 un notevole storico moderno siciliano, Orazio Cancila, ha pubblicato un gran libro, presso Rubbettino: “I Florio: Storia di una dinastia imprenditoriale”. Qualcuno che abbia tempo, voglia e capacità potrebbe scrivere un “I Martino: Storia di una dinastia politica”, e sarebbe ottima cosa. Il liberalismo…Difficile entrare in partiti e parlamenti e restare tali.

Ovviamente, rispetto ad un signore d’altri tempi quale Martino, da decenni si osservano oscene figure che si dicono liberali prima di entrare in Parlamento, e deponendo le vesti liberali subito esibiscono, nei palazzi del potere, le sottovesti che hanno sempre portato addosso, di statalisti, centralisti, e quant’altro. Martino porta con sé il sogno ottocentesco di un liberalismo che è il contrario di quello che dovrebbe essere, soprattutto se riproposto oggi: per cui il centralismo cavouriano è ancora legge. Per questo tipo di centralismo, di costituzionalismo, di statalismo, vediamo sempre compiersi massacri. Che certamente un Martino non avrebbe auspicato, né desiderato.

Se poi questa nutrita schiera di anziani e meno anziani “liberali”, ci tiene ad essere considerata tale, ebbene, si compia lo sforzo linguistico necessario, e si parli solo di “libertarismo”, in modo da sganciarsi da loro e lasciarli cullare nella loro identità, cui tanto tengono. Le parole sono cose. Con questo, ve ne fossero di personalità come Martino negli attuali parlamenti. Anche per questo, fu l’ultimo dei notabili. Liberale proprio nel senso ottocentesco, anche nel suo ostentato laicismo: la leggenda vuole che una figlia (l’unica, forse) si sia fatta suora. Ma chissà.

Per omaggiare il libertarismo – visto che il liberalismo abbiano deciso necessariamente sia altra cosa – non vi è che la creazione di piccoli stati in felice competizione tra di loro. Che tocchi alla Corsica presto, o alla Scozia? Considerando anche questo male minore, vittoria limitata. Solo il mondo senza stati, solo il mondo del tutto privatizzato, è quel che il libertarismo auspica. Forse, per arrivarci, saranno necessari altri miliardi di morte. Il gioco funziona così.

Da sempre. E il “redde rationem” si presenterà un giorno, o un mondo senza stati, o un mondo senza esseri umani. Probabilmente, la soluzione intermedia sarà quella vincente. I sopravvissuti, pochi, daranno vita alla società libertaria. Se, per l’appunto, qualcuno ce la farà a sopravvivere.

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