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22 marzo 1848, rinasce la repubblica veneta

Da leggere

di ETTORE BEGGIATO

“Quali erano i veri obiettivi dell’insurrezione veneziana?”, chiese W. Nassau a Daniele Manin negli anni del suo esilio parigino. “Preferivamo essere una Repubblica indipendente confederata con gli altri stati italiani” la risposta del protagonista principale di quella straordinaria esperienza chiamata Repubblica Veneta e durata quasi un anno e mezzo, dal 22 marzo 1848 al 24 agosto 1849. E Daniele Manin continua nelle sue riflessioni denunciando: “Se Carlo Alberto si fosse presentato come un uomo disinteressato; se non avesse fatto una guerra egoistica per l’ingrandimento del Piemonte…il Piemonte usava il pretesto di una guerra di liberazione per fare in realtà una guerra di ambizione e di conquista”.

Purtroppo siamo sempre più coinvolti in una bolgia di retorica di chi cerca disperatamente di far passare una guerra di conquista in una guerra di liberazione, e i professionisti della retorica patriottarda sono gli stessi che cercano di annacquare la nobile figura di Daniele Manin nella macedonia del risorgimento tricolore, di quella macedonia che pretende di presentare i moti del 1848 inserendoli nella prima guerra d’indipendenza. Nel Veneto non fu così. Nel Veneto anche nel 1848 si gridava “Viva San Marco!” e “Viva la Repubblica (Veneta, naturalmente)”, nella nostra Terra di parlava di “confederazione”, di rapporto paritario con gli altri popoli, altro che l’annessione espansionistica savoiarda basata sui plebisciti-truffa.  Ed è un personaggio che non si può certamente definire “venetista” come Giovanni Spadolini che esalta la dimensione “federalista” del Nostro: “Era piuttosto la Repubblica in lega con gli altri stati d’Italia nella grande federazione allora sognata. Federazione italiana, e poi europea (secondo un’intuizione che in Manin -personaggio sotto ogni profilo europeo- fu più perentoria e lampeggiante che non in molti altri uomini del risorgimento)”.

Daniele Manin nacque a Venezia il 3 giugno 1804 in campo Sant’Agostino da famiglia ebraica convertita al cristianesimo. Gli storici si dividono sul cognome originario: secondo alcuni fu Fonseca, secondo altri Medina. Quando fu battezzato gli fu imposto il cognome del padrino, come si usava all’epoca, fratello dell’ultimo Doge della Serenissima, Ludovico Manin: quasi un presagio. Secondo alcuni autori, la portata storica della rivoluzione veneta del 1848-49 fu sminuita anche per la consistente presenza di ebrei fra i più stretti collaboratori di Daniele Manin; di certo il periodico italiano la “Difesa della Razza” nel 1939 scrive che “i quaranta proscritti dall’Austria dopo la capitolazione di Venezia erano tutti ebrei, più o meno convertiti”. La madre fu Anna Maria Bellotto di Padova dalla quale ereditò una caratteristica profondamente veneta, la semplicità, quel suo modo di porsi che portò lo statista francese Ippolito Carnot a definirlo “eroe di saggezza, di coraggio e di semplicità”.

Laureatosi giovanissimo avvocato, seguendo le orme paterne, apre uno studio legale in Campo San Paternian (oggi Campo Manin). La passione e l’orgoglio per la storia di Venezia lo porta a stampare il volume “Storia della Veneta Legislazione” lucidissima analisi delle leggi Serenissime. Altrettanta passione dimostrava per la lingua veneta che in una lettera chiamerà “la mia bellissima lingua”, da Lui parlata in tutte le situazioni e che anzi contribuì all’efficacia della sua arte oratoria. Collaborò con Giuseppe Boerio nella stampa di quel “Dizionario del dialetto veneziano” che ancor oggi rappresenta una fonte insostituibile nello studio della lingua veneta.

Le sue convinzioni profondamente repubblicane e di riscatto per la Terra di San Marco diventano pubbliche nel 1847 durante il IX congresso dei scienziati italiani; Manin è un sostenitore della “lotta legale” per arrivare all’autonomia e alle riforme. Il 18 gennaio 1848 assieme a Niccolò Tommaseo viene arrestato dalle autorità austriache: il loro arresto diventa la scintilla che fa incendiare Venezia. Diventa il Presidente della Repubblica Veneta, protagonista indiscusso dei diciasette mesi di straordinaria intensità. Il 24 agosto parte con la famiglia per l’esilio di Parigi dove muore il 22 settembre 1857.

Il 22 marzo 1868 le sue spoglie tornarono a Venezia e in piazza San Marco si svolse la cerimonia ufficiale: emblematica la scelta della data, venti anni dopo la rinascita della Repubblica Veneta, l’intera città di Venezia di stringeva commossa attorno al suo condottiero. Ecco alcuni passaggi del saluto dell’avvocato Luigi Priario di Genova: “Un popolo intero che circonda un feretro! Di chi è questo feretro? Quali preziose ceneri sono raccolte in quest’urna? Le ceneri di un imperatore ? No. Così non si piangono e non si onorano gli imperatori da un popolo. No queste ceneri non vengono da Sant’Elena, e non si legge su questa bara il delitto di Campoformido…Queste ceneri non grondano sangue, né lagrime di un popolo. Sono le ceneri di un salvatore di un popolo. Sono le ceneri di un esule, che fu dittatore, e che volle ed ebbe la gloria di morir povero. Sono le ceneri di Daniele Manin! Chi è Manin? Manin è la virtù, Manin è l’onestà, Manin è il martirio…”. La sua tomba fu portata in un primo tempo all’interno della basilica di San Marco e dopo pochi mesi fu trasferita all’esterno nella piazzetta dei Leoncini dove ancor oggi si trova.

Vediamo brevemente le principali tappe di quello che fu (almeno per il momento) l’ultimo periodo di autogoverno, di indipendenza del popolo veneto.

Il 18 gennaio 1848, a Venezia, vengono arrestati dalle autorità austriache Daniele Manin e Niccolò Tommaseo protagonisti di quella che veniva chiamata “lotta legale” o “opposizione legale” al governo di Vienna.

Il 17 marzo arriva a Venezia, tramite il vapore postale giunto da Trieste, la notizia che a Vienna Metternich si è dimesso ed è stata concessa la Costituzione: la manifestazione popolare successiva porta alla liberazione di Manin e Tommaseo.

Il 22 marzo alle ore 16.30 rinasce in Piazza San Marco la Repubblica Veneta. e il Presidente Daniele Manin termina il suo discorso infiammando la folla con un triplice “Viva La Repubblica, viva la libertà, viva San Marco!”. Nel suo diario Teresa Manin scrive: “Era un’ebbrezza, un delirio: i vecchi piangevano, i giovani si abbracciavano. Chi batteva le mani, chi le alzava al cielo in atto di rendere grazie”. Nel nuovo governo un ruolo centrale spetta al dalmata Niccolò Tommaseo ministro del Culto e dell’Istruzione secondo il quale una confederazione repubblicana delle regioni doveva essere permanente e non un graduale passaggio verso la repubblica unitaria, e in questa confederazione doveva esserci lo Stato Pontificio: il 4 aprile un decreto del governo veneto permetterà la libertà di comunicazione per tutti i vescovi del Veneto con il Papa. Un provvedimento rassicurante per tutto il mondo della Chiesa.

Emblematico il primo decreto che appare sulla “Gazzetta di Venezia” del 23 marzo: “Il Governo provvisorio della Repubblica Veneta dichiara agli stranieri dimoranti in questa città, di qualunque nazioni e opinione siano e qualunque siano i loro antecedenti politici, che sarà ad essi usato ogni riguardo qual si conviene tra nazioni civili, e massime a questo paese noto per l’ospitalità sua. Il Presidente Manin”. E’ importante sottolineare come graficamente nella Gazzetta emergono due concetti: “Viva San Marco” e “Foglio Ufficiale della Repubblica Veneta”, sottolineo “Repubblica Veneta” visto che c’è ancora in giro qualche simpaticone che pontificando da qualche università parla di “Repubblica di Venezia”…

Oltre a Venezia è l’intera terraferma che si solleva contro gli Austriaci nel nome di San Marco: Padova, Vicenza, Belluno, Treviso, la stessa fortezza di Palmanova, Udine. Emergono figure straordinarie come quella di Pietro Fortunato Calvi. Non sorprende allora che già il 24 marzo, sempre nella Gazzetta, troviamo un decreto che invita ufficialmente le città del Veneto a far parte della Repubblica Veneta in modo paritario: “Il nome di Repubblica Veneta non può portare ormai seco alcuna idea ambiziosa o municipale.Le Provincie, le quali si sono dimostrate tanto coraggiosamente unanimi alle comune dignità; le Provincie, che a questa forma di governo aderiscono, faranno con noi una sola famiglia senza veruna disparità di vantaggi e diritti, poiché uguali a tutti saranno i doveri: e incominceranno dall’inviare in giusta proporzione i loro Deputati ciascuna a formare il comune Statuto. Aiutarsi fraternamente a vicenda, rispettare i diritti altrui, difendere i nostri, tale è il fermo proponimento di tutti noi”.

Concetti che vengono ribaditi il 29 marzo: “I cittadini delle Provincie Unite della Repubblica, qualunque siano le loro confessioni religiose, nessuna eccettuata, godono di perfetta uguaglianza dei diritti civili e politici. Tutte le differenze nella vigente legislazione, contrarie a questo principio, sono tolte dalla sua applicazione. Le magistrature giudiziarie e amministrative sono incaricate di questa applicazione nei singoli casi ricorrenti. Manin”. Concetti come federazione o addirittura confederazione in quei giorni epoca erano estremamente attuali. Ecco quanto arriva dal Governo Provvisorio di Vicenza il 27 marzo: “Con tale adesione peraltro non s’intende pregiudicare in guisa alcuna, né la desiderata e sperata unione della Venezia alla Lombardia, né una speciale confederazione di questi due Stati che rimanessero disgiunti,né (e molto meno) la generale confederazione degli Stati Italiani”.

Confederazione appunto, concetto del tutto sconosciuto agli “ultras” del centocinquantenario della cosiddetta “Unità d’Italia” che stanno imperversando in questi mesi… Le città della terraferma, purtroppo, una alla volta capitolarono e a Venezia il Governo provvisorio convoca una “Assemblea di Deputati” (un parlamentino ove ci sia un eletto ogni duemila abitanti) con il compito di verificare le scelte politiche del governo stesso. L’Assemblea si riunisce in Palazzo Ducale la prima volta il 3 luglio; Daniele Manin nel suo intervento si riallaccia alle glorie del passato: “Cittadini deputati, nel 22 marzo, cessata in Venezia l’austriaca dominazione, il popolo proclamò la Repubblica: cinquant’anni di schiavitù non potevano avergli fatto dimenticare 14 secoli d’indipendenza gloriosa”.

Il giorno dopo si va al voto: la prima votazione, se la condizione politica della Repubblica debba decidersi subito o no, vede 130 si, e solo 3 no; la seconda sull’immediata fusione della Repubblica Veneta negli Stati Sardi colla Lombardia vede 127 si, e 6 no; la terza sulle sostituzioni e forme dei ministeri fu rinviata al giorno successivo. Manin venne eletto membro di nuovo, probabilmente sarebbe stato rieletto a presidente ma egli rispose: “Io ringrazio vivamente l’Assemblea di questo nuovo contrassegni di fiducia e di affetto, ma debbo pregarla di dispensarmi. Io non ho dissimulato che fui, sono e resto repubblicano. In uno stato monarchico io non posso esser niente, posso essere della opposizione ma non posso essere del governo…”. Al suo posto venne eletto l’avv. Jacopo Castelli che resse il governo provvisorio fino al 7 agosto quando il potere venne assunto dal tre commissari in nome del re Carlo Alberto (generale Colli, cav. Cibrario, avv. Castelli): il proclama dei quali termina con l’acclamazione “Viva San Marco, Viva Carlo Alberto, Viva L’Italia”.

La dimensione unionista filosabauda sembra avere la meglio, anche se non mancavano le attestazioni a favor di Manin e la contrarietà alla fusione. Ecco una simpatica filastrocca: “No intendo ben sto termine/ che sento dir fusion/ me par che i se desmentega/ de metter prima un con/…Ma basta po per altro/ che i lassa star Manin/ lo zuro, no voi altro/ da vero citadin”. La simpatia per i Savoja durò pochi giorni, comunque. Il 23 marzo Carlo Alberto di Savoja aveva dichiarato guerra all’Austria, la cosiddetta “Prima guerra d’indipendenza”, lanciando il proclama “Ai popoli della Lombardia e del Veneto”. In un primo tempo le sorti della guerra sembrano essere favorevoli al Regno di Sardegna con la vittoria di Goito e la resa della fortezza di Peschiera. L’incertezza e l’ambiguità di Carlo Alberto fanno in questa fase il gioco degli Austriaci guidati dal feldmaresciallo Radetzky che il 25 luglio sconfiggono a Custoza i piemontesi. Le truppe sabaude iniziano la ritirata verso Milano che viene poi abbandonata praticamente senza combattere. Da qui le violente polemiche nei confronti di Carlo Alberto.

Il 6 agosto gli austriaci rientrano a Milano e il 9 viene firmato a Vigevano l’armistizio cosiddetto di Salasco (dal nome del generale Carlo Canero di Salasco). L’armistizio, prevede, tra l’altro, il ritiro delle truppe sabaude da Venezia; quando la cosa fu pubblica, i veneziani insorsero gridando “Abbasso il governo regio! Abbasso i commissari! Viva Manin! Viva San Marco!”. Daniele Manin rendendosi conto della drammaticità della situazione assume per 48 ore il potere, i commissari regi vengono rimossi, per il 13 agosto viene convocata l’ “Assemblea dei Deputati” e in questo modo i tumulti cittadini vengono placati. Nelle stesse ore Nicolò Tommaseo parte per Parigi per cercare aiuti.

L’Assemblea del 13 agosto elegge un Triumvirato con Manin, Cavedalis e Graziani che resterà in carica fino al termine della guerra. Pochi giorni dopo viene lanciato un prestito di 10 milioni di lire garantito da ipoteche sul Palazzo Ducale e sulle Procuratie Nuove.

Il 6 ottobre scoppiano tumulti a Vienna e l’imperatore è costretto a fuggire a Linz; la rivoluzione viennese sarà domata l’otto novembre. Il 2 dicembre l’imperatore asburgico Ferdinando I° abdica e subentra il nipote Francesco Giuseppe: regnerà fino al 1916 e il suo regno sarà uno dei più lunghi della storia. Nel frattempo vanno segnalate le sortite del Cavallino e di Mestre costellate da dolorose perdite.

Il 24 dicembre viene istituita una Assemblea permanente dei rappresentanti dello stato di Venezia. L’anno si chiude con la bandiera di San Marco che sventola nella città. Il 1849 si apre con un decreto che vieta l’uso delle maschere, viste le condizioni eccezzionali nelle quali si trova la città. Il 30 si chiudono le elezioni per l’Assemblea dei Rappresentanti: hanno votato ben 32.255 elettori. Il primo febbraio torna in Patria Nicolò Tommaseo. Viene sostituito come Ambasciatore a Parigi dallo scledense Valentino Pasini. Il nove febbraio si riunisce per l’ultima volta l’Assemblea dei deputati, mentre il 15 viene convocata per la prima volta a Palazzo ducale, l’Assemblea dei Rappresentanti del popolo di Venezia. Due giorni più tardi la stessa assise riconferma i poteri straordinari a Manin, Graziani e Cavedalis. Il 7 marzo l’Assemblea nomina Presidente Daniele Manin con 108 voti favorevoli su 110 votanti. Arriva intanto la notizia della ripresa delle ostilità da parte di Carlo Alberto di Savoja.

22 marzo, celebrazione del primo anniversario della Repubblica; Messa e Te Deum nella Basilica di San Marco. Qualche giorno dopo arrivano le notizie della sconfitta dei Savoja a Novara e dell’abdicazione di Carlo Alberto: subentra Vittorio Emanuele II. Il 2 Aprile l’Assemblea dei Rappresentanti dello Stato di Venezia in nome di Dio e del Popolo unanimemente decreta: “Venezia resisterà all’austriaco ad ogni costo. A tale scopo il Presidente Manin è investito di poteri illimitati.”.

Un voto unanime che esalta la dimensione più autentica della Repubblica: in questi mesi così esaltanti, è l’intero popolo veneziano che si mobilita per difendere la libertà della città, è una rivoluzione, una Repubblica interclassista (per usare un’espressione relativamente moderna) che lotta strenuamente e che dice con un’unica voce: resisteremo ad ogni costo. E qui emerge la profonda differenza rispetto all’elites che diverranno protagoniste fra qualche anno del Risorgimento che nel Veneto, rispetto al 1848-49, è stata veramente ben poca cosa. Il 25 aprile, giorno di San Marco, giorno di festa, Manin arringa il popolo cominciando il suo intervento con queste parole: “Cittadini! Chi dura vince, e noi dureremo e vinceremo. Viva San Marco!”.

Pochi giorni dopo, il 4 maggio, incomincia il bombardamento del forte Marghera; Radetzky intima la resa di Venezia, promettendo a Daniele Manin il perdono. Manin risponde inviando il decreto del 2 aprile, resisteremo a ogni costo. Il 14 maggio la comunità ebraica si raccoglie nella sinagoga prepongo per le sorti della città; il 19 i consoli stranieri invitano i loro connazionali a lasciare la città in vista dell’inasprimento dell’assedio. Nel frattempo va ricordato come l’iniziativa diplomatica della Repubblica portasse, in questi giorni, a un risultato concreto. Proprio come nel Veneto, nell’Ungheria nel marzo del 1848 era scoppiata una rivoluzione anti asburgica con alla guida un capo carismatico come Lajos Kossuth; Nicolò Tommaseo durante il suo soggiorno a Parigi era riuscito a creare un notevole rapporto con i rappresentanti del popolo magiaro che si concretizzò nella convenzione di alleanza fra l’Ungheria e Venezia.

A Duino il 20 maggio 1849 fu firmata la convenzione di otto articoli che iniziava con “Nessuno dei due Stati potrà stipulare un patto o un trattato di pace qualsiasi col nemico comune senza il concorso o l’approvazione dell’altro”. Il documento ebbe una grandissima eco in città e provocò un’ondata di ottimismo e di entusiasmo: si favoleggiava di un contributo di mezzo milione di lire per la Repubblica, di un esercito di cinquantamila soldati ungheresi in marcia su Trieste. Non fu così anche se va ricordato come la nazione ungherese fu l’unica a dare un sostegno concreto a Venezia. Il sogno ungherese si spense il 13 agosto con la battaglia di Vilagos dove l’intervento dell’armata russa fu determinante per sconfiggere l’eroismo degli ungheresi.

Torniamo a Venezia: il 26 maggio viene abbandonato il forte di Marghera; il 31 l’Assemblea risponde al messaggio del ministro austriaco De Bruck che la base per ogni trattativa rimane l’indipendenza assoluta del Lombardo-Veneto; al diniego da parte austriaca, la trattativa si sposta sull’indipendenza della città, con un raggio di territorio che rendesse economicamente possibile tale realtà. Il ministro rispose che l’Austria aveva deciso di riconquistare Venezia e solo dopo si poteva discutere.

Il 13 giugno gli austriaci riprendono il bombardamento della città e alcune famiglie vengono evacuate da Cannaregio, la zona più esposta della città. Il 29 il bombardamento divenne più massiccio e diverse famiglie furono costrette a rifugiarsi in piazza San Marco, a Castello e sulla riva degli Schiavoni. Fu aperto il Palazzo Ducale e perfino le scale divennero asilo di sfollati. Nonostante questo nessuno parlava di capitolazione, di arrendersi. Con l’inizio di luglio si manifestano i primi casi di colera.

Il 12 luglio gli Austriaci sperimentano sulla città dei palloni aerostatici incendiari che non provocano fortunatamente danni. Il 3 agosto l’esasperazione degli animi provoca un increscioso assalto alla residenza del Patriarca, accusato da un gruppo di cittadini di aver sottoscritto una petizione con la quale si chiedeva al governo di far conoscere i motivi che potevano indurlo alla resistenza ad ogni costo, anche nella contingenza drammatica che si stava vivendo. Il 6 agosto l’Assemblea concentrò su Manin ogni potere per l’onore e la salvezza di Venezia. Il 15 agosto l’epidemia di colera tocca l’apice: 402 casi con 270 morti. Il 18 Manin parla per l’ultima volta al popolo in piazza San Marco; le condizioni sono gravi, disse, ma non disperate. Per negoziare occorre calma e dignità; l’unica cosa che non si può chiedergli è la viltà: nemmeno per Venezia può arrivare a tanto. Il 21 in città arriva la notizia che anche gli ungheresi di Kossuth hanno capitolato: Venezia è l’ultima città d’Europa a resistere agli Asburgo. Il 22 una delegazione si reca nella terraferma mestrina, a Marocco, per trattare la resa di Venezia. Il 24 agosto il Governo provvisorio, con la dichiarazione di Manin, chiude la propria esperienza; il governo della città viene assunto dal podestà Correr e da 14 membri. Daniele Manin guida la lista dei 40 esiliati.

E la poesia di Arnaldo Fusinato descrive in maniera straordinariamente commovente e incisiva le giornate conclusive di quello che è, almeno per il momento, l’ultimo periodo di indipendenza del nostro popolo.

ODE A VENEZIA

E’ fosco l’aere, il cielo e’ muto, 

ed io sul tacito veron seduto,

in solitaria malinconia

ti guardo e lagrimo,

 

Venezia mia!

Fra i rotti nugoli dell’occidente

il raggio perdesi del sol morente, 

e mesto sibila per l’aria bruna

l’ultimo gemito della laguna.

 

Passa una gondola della città.

“Ehi, dalla gondola, qual novità ?”

“Il morbo infuria, il pan ci manca,

sul ponte sventola bandiera bianca!”

 

No, no, non splendere su tanti guai,

sole d’Italia, non splender mai;

e sulla veneta spenta fortuna

si eterni il gemito della laguna.

 

Venezia! l’ultima ora e’ venuta;

illustre martire, tu sei perduta…

Il morbo infuria, il pan ti manca,

sul ponte sventola bandiera bianca!

 

Ma non le ignivome palle roventi,

ne’ i mille fulmini su te stridenti,

troncan ai liberi tuoi di’ lo stame…

Viva Venezia!

Muore di fame!

 

Sulle tue pagine scolpisci, o Storia,

l’altrui nequizie e la sua gloria,

e grida ai posteri tre volte infame

chi vuol Venezia morta di fame!

 

Viva Venezia!

L’ira nemica la sua risuscita

virtude antica;

ma il morbo infuria, ma il pan le manca…

Sul ponte sventola bandiera bianca!

 

Ed ora infrangasi qui sulla pietra,

finché e’ ancor libera,

questa mia cetra.

A te, Venezia,

l’ultimo canto,

l’ultimo bacio,

l’ultimo pianto!

 

Ramingo ed esule in suol straniero,

vivrai, Venezia, nel mio pensiero;

vivrai nel tempio qui del mio core,

come l’imagine del primo amore.

 

Ma il vento sibila,

ma l’onda e’ scura,

ma tutta in tenebre

e’ la natura:

le corde stridono,

la voce manca…

 

Sul ponte sventola

bandiera bianca!

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