di GIOVANNI BIRINDELLI
Uno Stato che finanzia la cultura è necessariamente uno Stato totalitario. Lo Stato totalitario, infatti, è quello che promuove il “bene” (la “felicità” nelle parole del leggiadro presentatore televisivo). Infatti il “bene” ha due caratteristiche interdipendenti fra loro che rendono lo Stato che si occupa della sua promozione necessariamente totalitario. La prima è quella di essere necessariamente soggettivo. Ognuno ha la propria idea del “bello”, di ciò che è “importante”: in breve, di ciò che secondo lui è il “bene”. Quindi nel migliore dei casi quando lo Stato finanzia la “cultura” ricorre alla violenza (tasse, debito o inflazione) per finanziare ciò che chi detiene il potere politico ritiene arbitrariamente essere “cultura meritevole”, il che implica la discriminazione arbitraria di coloro per i quali “la cultura meritevole” è una cosa diversa. Viceversa, dove lo Stato si limita a difendere la legge intesa come principio generale e astratto questa discriminazione e questa imposizione ad altri di scelte arbitrarie non ci sono: Tizio e Caio possono facilmente avere idee diverse su cosa è “culturalmente meritevole” ma non sul fatto che il furto o la frode siano atti illegittimi. Il rispetto e la valorizzazione della diversità si ottiene non nominando una persona di colore come Ministro dell’Integrazione ma introducendo il libero mercato, cioè la sovranità della legge intesa come principio generale e astratto.
La seconda ragione per cui uno Stato che si occupa di finanziare il “bene”, e quindi anche la “cultura”, è necessariamente totalitario è che il “bene” è illimitato: al di là della quantità di denaro che chi detiene il potere politico può saccheggiare a questo scopo, non ci sono limiti non arbitrari alle cose soggettivamente ritenute essere importanti, belle o meritevoli che lo Stato può finanziare con la coercizione; e l’assenza di limite non arbitrario alla coercizione è la definizione stessa di totalitarismo. Una società libera, quella in cui fiorisce la cultura senza virgolette, è quella in cui il limite alla coercizione e alla violenza è costituito dalla legge intesa come principio generale e astratto. Questa, non essendo un provvedimento particolare risultato della decisione di un’autorità ma un principio generale risultato di un processo spontaneo di selezione di usi e convenzioni di successo, non è arbitraria. In una società libera, quindi, lo Stato non promuove il “bene” ma si limita ad arginare il male, un male che è necessariamente limitato e non arbitrariamente definito: più precisamente, in essa lo Stato (o chi per esso) può usare coercizione solo contro chi ha violato la legge intesa come principio e oltre quel punto la sua coercizione non può spingersi.
Nelle menti più deboli, lo Stato totalitario riesce facilmente a inculcare l’idea che il suo compito sia quello di promuovere e finanziare la “felicità”. Queste menti sono infatti incapaci di concepire un ordine spontaneo. Per esse, l’assenza di disegno da parte dello Stato significa caos; l’assenza di finanziamento pubblico significa impossibilità. Su queste menti, la deresponsabilizzazione implicita nelle ideologie collettiviste come quella su cui è fondata la repubblica italiana ha un fascino molto forte e non è difficile capire perché. Sono queste menti deboli che Frédéric Bastiat identificava non solo come gli avversari della libertà e della sovranità della legge ma anche della cultura.