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Morto walter e. william, nero e libero: il libertarismo afro-americano

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Oggi, è scomparso Walter E. Williams, lo ricordiamo con questo bell’articolo scritto dal nostro Paolo L. Bernardini. (dir.)

di PAOLO L. BERNARDINI

Lo spettacolo tristissimo del mondo “inginocchiato”, del “Black Lives Matter”, giunge come una ciliegina sulla torta dello stupro della libertà trionfalmente compiuto in tutto il mondo “libero” tra marzo e maggio 2020, per riaffermare il potere dell’autorità governativa sull’individuo indifeso, e parzialmente complice; una reazione collettiva di attacco a quell’autorità costituita, la polizia, che è la stessa che ha costretto a casa – impotente braccio armato del sistema – milioni di persone apparentemente in grande parte accondiscendenti, e zelanti osservatori di norme grottesche: parafrasando il detto “più realista del re”, “più statalisti dello stato”. E allora l’isteria collettiva che coglie il mondo fattosi difensore di delinquenti caduti sotto il braccio violento della legge può leggersi come psicodramma, come atto catartico nei confronti di quell’autorità oppressiva che era stato finora ossequiata ed adorata come “custode della legge”.

Di nuovo, il mondo progressista e collettivista si fa difensore (non sempre richiesto) della causa dei neri americani, che sono 50 milioni, il 15% degli abitanti degli USA, ma che non si sentono tutti per fortuna seguaci del culto collettivista e re-distribuzionista, cialtrone e ladrone, parassita e sussidiato, dei perdigiorno retribuiti dai soliti misteriosi potentati, e benedetto ovviamente dal Pontefice. Non tutti i neri americani hanno sposato la causa di Martin Luther King e Nelson Mandela. Come non tutti i cinesi sono felici di essere schiavi, e a Taiwan e Hong Kong stanno dando lezioni di coraggio e di libertà al mondo. Perché non esistono i cinesi o i neri, esistono – per fortuna – solo gli individui, e nel momento in cui l’individuo prende coscienza di se stesso non può far altro che diventare individualista, e sposare il liberalismo come filosofia del buon senso e della sana morale.

Non è certo cosa facile parlare di libertarismo e liberalismo classico afro-americano. Ma esso esiste eccome, e non solo probabilmente dagli anni Ottanta. L’accademia se ne accorge tardi e malvolentieri. Il primo libro che ne parli in modo panoramico – più critico che neutrale, alla fine, ma almeno documentato – è del giovane storico australiano Michael L. Ondaatje, Black Conservative Intellectuals in Modern America, pubblicato nel 2011 dalla University of Pennsylvania Press. Da notare che lo stesso storico riconosce che anche se non se ne parla, il fenomeno del conservatorismo e libertarismo nero è ormai consolidato almeno da tre decenni: “…the question of whether it is possible for American blacks to be genuinely conservative seems old hat, even irrelevant. Black conservatism if now firmly planted on the nation’s cultural landscape, its proponents having shaped policy discussion and debates over some of the most pressing matters that confront the modern black community…” Le conclusion sono molto moderate, tipicamente accademiche, “neutrali”: “…the emergence of black conservatives… during the past three decades had more to do with their ideological utility… than with the potency of their arguments, which appeared to falter (so often) under an intellectual microscope… To suggest, as some did, that black conservatives were merely counterfeit heroes… was surely to contravene the spirit of the civil rights movement… But to suggest that the black conservatives were color-blind visionaries who offered a realistic program for contemporary black advancement was equally misguided. In reality, black conservative intellectuals in modern America were neither counterfeit heroes nor color-blind visionaries.” Insomma, meglio non prendere posizione.

In realtà, il discorso è diverso. I filosofi libertari e liberali classici neri non si rivolgono precipuamente alla comunità nera, ma, come ogni filosofo, al genere umano; all’economia e alla politica, alla scienza e all’istruzione, alla religione e alla stampa. Si pensi solo al maggiore di loro, Walter E. Williams, docente alla George Mason University, una roccaforte libertaria (in buona parte) nel cuore degli USA, nei pressi di Washington D.C. Non solo Williams ha avuto di recente il coraggio (come Will, del resto), di attaccare le crescenti spinte collettivistiche e welfaristiche negli USA – che fanno il paio con la distruzione del passato, con le statue di Colombo fatte ridicolmente a pezzi in questo giugno 2020, come se da esse si fosse propagato il virus che quello sì, manipolato ed indirizzato in tal senso dai poteri centrali, ha messo in ginocchio ma per davvero l’umanità – in tanti articoli e nel libro del 2015 American Contempt for Liberty, dove un lunghissimo illuminante capitolo parla appunto dello sfruttamento della “race” come arma di propaganda progressista a tutto detrimenti degli interessi e delle vite dei neri stessi; ma Williams ha avuto anche il coraggio di attaccare il comunismo di Mandela e della ANC in un libro profetico del 1989, South Africa’s War Against Capitalism, che in un certo modo antevedeva la situazione qual è oggi, con quello che è stato il più ricco paese del continente vicino al precipizio.

“Più libertà significa meno governo”. “More Liberty Means Less Government: Our Founders Knew This Well” è il titolo di un libro di Williams del 2013. La miglior chiave d’accesso al suo pensiero, per quanto sia una raccolta di saggi. Ondaatje definisce le sue posizioni “inutilmente provocatorie” (p. 37), ma in realtà si tratta di posizioni radicate nel conservatorismo liberale e libertario americano, che in qualche modo si riflette in un intellettuale che non ha mai seguito il gregge, in bianco o in nero, del collettivismo e dello statalismo, in economia e non solo.

La splendida carriera di accademico, giornalista, intellettuale a tutto tondo fatta da Williams mostra bene come non sia il colore della pelle a fermare nessuno; a meno che esso non diventi lo scudo per poter vivere senza lavorare, il pretesto per il parassitismo, cosa che non tanto i neri, quanto lo stato hanno voluto troppo che fosse, per il proprio interesse e non certo per quello degli afro-americani. E allora si vada alle origini della carriera di Williams, al suo mirabilmente provocatorio “The State Against Blacks,” (1982) divenuto poi un celebre documentario, “Good Intentions.”. Ricordando il motto che dice che di buone intenzioni è lastricata la strada che porta all’inferno – costruita tramite appalti pubblici vinti poi dai soliti noti.

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