“Se l’inflazione è prevedibile, creditori e debitori possono tenerne conto nei loro contratti di finanziamento; semplicemente i tassi di interesse nominali aumentano per compensare la perdita di potere d’acquisto della moneta. Anche i lavoratori possono chiedere di adeguare i salari al costo della vita, di fatto indicizzandoli all’inflazione. E le imprese possono tenere conto dell’inflazione nei loro piani di investimento. Ma quando l’inflazione sobbalza di mese in mese è più difficile fare piani per il futuro. Ciò rende i finanziamenti, gli investimenti, le assunzioni e tutte le decisioni che comportano pianificazione qualcosa di simile a una scommessa. Naturalmente ciò tende a danneggiare la crescita economica”. Nell’occuparsi del target di inflazione della Fed, Noah Smith si spinge a sostenere che l’obiettivo potrebbe essere aumentato, essendo l’imprevedibilità e la volatilità dell’inflazione il vero problema. Come sempre, Smith fa riferimento alla definizione mainstream di inflazione, ossia di crescita di un indice di prezzi al consumo. In questa sede ragionerò di inflazione adottando la stessa definizione, pur essendo la crescita dei prezzi al consumo una conseguenza dell’inflazione, ossia dell’aumento dell’offerta di moneta.
Dunque, secondo Smith se il target passasse dal 2 al 4 per cento non ci sarebbe alcun problema, purché vi fosse flessibilità dei prezzi. Infatti Smith conclude così: “Ciò significa che la Fed probabilmente non dovrebbe temere un target di inflazione più alto, se ciò significasse avere più occupazione”.
C’è qualcosa che non va: se l’inflazione è del tutto prevedibile e la banca centrale riesce a mantenerla costantemente in linea con il target, allora quest’ultimo potrebbe anche essere -2 o -4 per cento e si potrebbero usare le stesse argomentazioni che Smith utilizza per spiegare che non si deve sempre e comunque temere l’inflazione elevata. Lui, però, è notoriamente tra coloro che vedono la deflazione come uno spettro.
Probabilmente Smith non ha letto la Teoria Generale di Keynes, che invece era favorevole all’uso dell’inflazione per abbassare i salari reali senza ridurre quelli nominali. Lo stesso dicasi per l’abbassamento del valore reale del debito. Se l’inflazione fosse prevedibile e tutti ne tenessero conto, il suo effetto redistributivo (ciò per cui piace ai keynesiani) tenderebbe a svanire. Quindi il classico trade-off tra disoccupazione e inflazione rappresentato graficamente dalla curva di Phillips (concetto piuttosto obsoleto anche nel mondo keynesiano, ma ancora utilizzato dalle banche centrali, a partire proprio dalla Fed) perderebbe significato anche per i keynesiani, perché ogni aumento dell’inflazione poterebbe un pressoché immediato adeguamento direttamente proporzionale dei salari nominali, senza alcuna riduzione del costo reale del lavoro.
Ovviamente non mi aspetto da Smith che sostenga l’opportunità di interrompere i monopoli di emissione e manipolazione della moneta affidati alle banche centrali. In questo caso, però, credo che riesca a mettere d’accordo sulla totale mancanza di senso di quello che ha scritto tanto gli antikeynesiani quanto i keynesiani. Il che è tutto dire.
L’inflazione è si indifferente per i debiti futuri,ma non per quelli in corso. Specialmente i pensionati ( che in Italia hanno verso lo Stato , un peso economico notevole) riceverebbero come pensione monete di valore ridotto.
Il giochetto dei politici italioti è tutto qui.