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Breve storia dei fanatici dell’apocalisse

Da leggere

di REDAZIONE

  • In questo brano Luciano Pellicani esplora il percorso antropologico del rivoluzionario di professione. Uomo assetato di assoluto, che il disincanto del mondo ha trasformato in “orfano di Dio”, il rivoluzionario è incapace di accettare la realtà e aspira a costruire un Mondo Nuovo, in cui tutto sarà conforme al Desiderio e l’umanità potrà finalmente prendere nelle sue mani lo scettro di Dio. La sua meta è la comunità evangelica, basata sulla eguaglianza e fratellanza universale. Ma, per giungervi,  egli crede non vi sia altra via che la guerra di annientamento contro gli adoratori di Mammona, che rendendo sovrana la legge della mercificazione, hanno tutto profanato e degradato.
    Di qui la vocazione distruttiva della rivoluzione gnostica, che non può tollerare che resti in piedi una sola pietra del vecchio mondo, corrotto e corruttore. Di qui l’inevitabile esito autodistruttivo del suo progetto di purificare l’esistente attraverso il terrore di massa e la politica della tabula rasa. Pellicani rivela il filo conduttore del pensiero gnostico rivoluzionario, dal cristianesimo delle origini alle dottrine eretiche cristiane, fino al giacobinismo ed al comunismo.

I FANATICI DELL’APOCALISSE (da “La società dei giusti” di Luciano Pellicani, 1995)

di LUCIANO PELLICANI

In senso lato, il Millenarismo è “la fede in un’era futura, profana e tuttavia sacra, terrestre e tuttavia celeste; tutti i torti saranno allora riparati, tutte le ingiustizie emendate; la malattia e la morte saranno abolite”.

Una tale fede, nella quale la renovatio religiosa e la trasformazione politico-sociale si presentavano come un’unica cosa, fu riattivata dai Profetae del Medioevo.
Essi formularono tutta una famiglia di dottrine apocalittiche utilizzando i materiali più diversi – il libro di Daniele, l’Apocalisse di Giovanni, le speculazioni di Gioacchino da Fiore sul Terzo Regno e le cosmologie gnostiche, soprattutto quella manichea – ripensati, reinterpretati e tradotti in un linguaggio che poteva essere compreso dagli umili e che faceva loro intravedere la prospettiva di una imminente liberazione.

Così operando, essi fomentarono la rinascita del radicalismo anti istituzionale che aveva caratterizzato le prime comunità cristiane, dominate dall’attesa della parousia, da esse vissuta come una palingenesi “nella quale tutti i valori profani sarebbero stati rovesciati e soprattutto gli umili e i sofferenti avrebbero trovato la loro apoteosi a suprema riparazione delle ingiustizie sofferte”.

Di qui il pathos del “rifiuto del mondo” che, a rigor di logica, avrebbe dovuto condurre all’idea che il primo dovere del cristiano era distruggere l’impero, contaminato da una religione e da una civiltà che Cristo aveva maledette.
…….
Perché mai i cristiani avrebbero dovuto occuparsi e preoccuparsi del futuro della società in cui vivevano, se questa non era altro che un regnum perditionis, destinato ad essere spazzato via dal “soffio del Signore”? L’unico atteggiamento coerente era quello di attendere la “fine del mondo” senza farsi contaminare dai suoi miasmi morali, reiterando provocatoriamente che “la sapienza umana era stoltezza davanti a Dio”.
Insomma, i cristiani conducevano contro le istituzioni esistenti una sorta di guerra sotterranea e incruenta.

Tanto vero che essi non esitavano a proclamare: “Nulla ci è più estraneo che lo Stato”. Accadeva così che esteriormente i cristiani erano buoni cittadini dell’impero, ma nell’intimo ne rifiutavano i valori di base, i quali, alla luce dell’attesa del regno di Dio, apparivano insignificanti, quando non erano addirittura considerati disvalori. Ciò era intuito dai non cristiani, che li ripagavano con la stessa moneta, vale a dire con il sospetto e il risentimento.
……
Ma, a partire dall’ editto di Milano (313), si verificò un radicale cambiamento della scena. Dal momento che Costantino, nel disperato tentativo di potenziare le basi spirituali dell’impero, aveva deciso di fare del Cristianesimo una religione protetta dallo Stato, la Chiesa fu in un certo senso obbligata a prendere le distanze nei confronti del Millenarismo, presentando “Il regno di Dio” come una rivoluzione puramente spirituale, una renovatio in interiore homine priva di contenuti specificamente politici e sociali.

Inoltre, essa cercò in tutti i modi di attenuare la carica anti istituzionale di ciò che Tertulliano aveva chiamato “il disprezzo del secolo”, che faceva del cristiano un allogeno, completamente indifferente al destino della civiltà in cui viveva. È stato più volte osservato che il mutamento di segno del Cristianesimo da religione di contestazione a religione di legittimazione dell’esistente si può agevolmente spiegare con il fatto che la Chiesa, a partire dal momento in cui fu presa sotto l’ala protettrice dell’impero, divenne l’agenzia di reclutamento di una nuova classe formata da uomini troppo interessati alla conservazione delle loro posizioni di comando per non guardare con diffidenza e preoccupazione agli “entusiasti”, che con la loro impazienza escatologica costituivano una minaccia per l’ordine costituito.

Ma c’era una ragione assai meno meschina dietro la svolta operata dalla burocrazia carismatica che reggeva la Chiesa. Evaporata l’attesa della seconda venuta del Cristo, come non preoccuparsi del destino di un mondo che sembrava andare alla deriva e nel quale tutto era instabile? Un mondo siffatto aveva bisogno, per non sgretolarsi completamente, di una disciplina intellettuale di ferro, di una dottrina della vita indiscussa e indiscutibile, forte contro tutti gli assalti degli interessi e delle passioni.

Fu soprattutto per questo che nel 431, al concilio di Efeso, la Credenza nel Millennio, sulla scorta dell’interpretazione delle Sacre Scritture data da Sant’Agostino, venne condannata come una superstizione aberrante. Con il che la Chiesa si riconciliò, in maniera solenne e ufficiale, con l’esistente, delegittimando quella carica sovversiva che pure era l’autentica e originale ispirazione del Cristianesimo.

Il fatto è che la Chiesa non poteva continuare ad essere una scuola di anarchismo, radicalmente ostile a tutto ciò che sapeva di ordine e di gerarchia, in una società in cui le istituzioni stavano andando in pezzi, riempiendo gli animi di angoscia. D’altra parte, una volta constatato che la Gerusalemme Celeste si ostinava a non venire, non c’era che una cosa da fare: leggere il libro della Rivelazione come una gigantesca allegoria spirituale, spostare l’evento salvifico nell’aldilà e accettare, introducendo tutti gli adattamenti suggeriti dal realismo, di convivere con il vecchio mondo. In tal modo si verificò quello che P.  Wendland ha chiamato “il trionfo della Chiesa sul cristianesimo”, un trionfo che fu possibile proprio nella misura in cui “il Regno di Dio, che doveva scendere dal cielo alla terra, fu collocato nel cielo”. Ma non fu un trionfo totale.

Accadde che la fiamma dell’attesa messianica non si spense del tutto. Essa covò sotto le ceneri, pronta a incendiare gli spiriti non appena in essi si intensificava, a causa delle sofferenze patite, il desiderio di sfuggire alla morsa opprimente della realtà. Il che avvenne puntualmente ogniqualvolta le impersonali forze del mercato, della concorrenza e del capitale misero in moto la macchina della mobilitazione sociale. Allora le masse sradicate, già predisposte dalla stessa socializzazione cristiana all’attesa del Redentore, volgevano lo sguardo verso quei predicatori che annunciavano l’imminente avvento del Millennio.

Lo schema di base del messaggio soteriologico dei Profetae era quello tipico della tradizione messianica, che la Chiesa non era riuscita a estirpare del tutto, essendo tale tradizione un elemento costitutivo del suo depositum fidei: “sventura, poi salvezza”. Ciò permetteva di interpretare le sofferenze materiali e morali nelle quali si battevano i diseredati come l’anticamera della redenzione: redenzione tutta terrena, perché il proprio della incendiaria predicazione dei Profetae era la riattivazione dell’originario significato del messaggio biblico, centrato sull’avvento, qui ed ora, del Messia, apportatore di pace e di giustizia.

Dentro un siffatto contesto psicologico-sociale era in un certo senso naturale che riacquistasse vitalità la tradizione gnostico-manichea. Questa aveva fallito per il suo radicale anti istituzionalismo. Predicava il rifiuto delle leggi secolari e degittimava le forme di vita esistenti. Ma, proprio per questo, c’era una sorta di affinità elettiva fra i suoi insegnamenti e lo stato d’animo dei diseredati.

Tanto più che la Gnosi di Mani, nella misura in cui insisteva sul carattere radicalmente malvagio del mondo e sulla figura del Salvatore Salvato, conteneva una diagnosi-terapia dell’alienazione centrata sullo schema del rovesciamento fantastico del mondo reale, che dischiudeva la prospettiva di una immediata renovatio mundi.

Accadde così che l’eresia gnostico-manichea, che la Chiesa Cattolica aveva creduto di aver debellato una volta per tutte, riemerse in forme trasfigurate un po’ dappertutto. I patarini, i catari, i flagellanti, i lollardi, i taboriti, gli anabattisti e tanti altri movimenti ereticali – tutti, sia pure in varia misura, a carattere millenaristico e intrisi di elementi gnostico-manichei – sfidarono le autorità politiche e religiose, contestarono la legittimità del cristianesimo della Chiesa e condannarono, in nome del comunismo evangelico, la cupidigia degli usurai e la proprietà privata.

Fu, la loro, una sfida totale all’esistente e, come tale, schiettamente rivoluzionaria; una sfida che non si limitava a criticare i soprusi dei potenti e dei ricchi, ma l’idea stessa di ordine gerarchico, cui contrapponeva l’ideale di un mondo trasfigurato, ove avrebbero finalmente regnato sovrane l’uguaglianza e la fratellanza universale. Così, in nome del rifiuto del vecchio mondo e dell’attesa del Mondo Nuovo, millenarismo e gnosticismo si congiungevano e si presentavano come un’unica forza spirituale, che conferiva al profeta che la incarnava tutti i tratti del portatore di salvezza. Come tale, egli era un capo carismatico.

Straordinaria era la situazione nella quale operava e straordinaria era altresì la missione che egli sentiva di avere nei confronti del gruppo-paria al quale rivolgeva il suo messaggio di speranza, basato sull’attesa dell’evento escatologico che sarebbe stato, in modo tipico, terribile e liberatorio al tempo stesso: una catastrofe apocalittica dalla quale sarebbe scaturito un Macrocosmo rigenerato e purificato.

Facilmente intuibile l’atmosfera di entusiasmo parossistico e di frenetico attivismo che circondava il profeta e l’aristocrazia carismatica degli eletti che egli guidava. Il mito escatologico della fine del tempo della corruzione generale, cui era intimamente collegata l’attesa della imminente renovatio, predisponeva il “proletariato plebeo”, eccitato e mobilitato dalla predicazione millenaristica, a tutto osare nella cieca convinzione che nulla poteva arrestare la sua marcia. Tanto più che il profeta non esitava a proclamare che, se fossero stati massacrati gli empi, i potenti e i ricchi, le porte della Gerusalemme Celeste si sarebbero magicamente dischiuse.

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