di MATTEO CORSINI
Nell’eterno dibattito sulle pensioni pubbliche, ciò di cui non vi è carenza di offerta in Italia sono le proposte che non hanno sostenibilità finanziaria. Di recente Paolo Ricotti, Presidente nazionale del Patronato Acli, ha detto la sua in merito al dopo quota 100, che cesserà a fine 2021.
Dopo aver commentato i dati di adesione a quota 100, inferiori alle attese formulate quando il provvedimento fu introdotto, Ricotti pone le consuete domande: “Perché oggi non si può scegliere di andare liberamente in pensione? Se un soggetto vuole utilizzare il proprio montante contributivo, anticipatamente, pure a costo di un importo pensionistico più basso, perché non può farlo”?
Ed ecco la sua risposta: “È chiaro che bisognerà bilanciare sull’assegno mensile, che diminuirà in proporzione all’anticipo pensionistico, ma credo che sia giunto il momento di cambiare prospettiva, ecco perché come Patronato Acli proponiamo, per riformare la previdenza italiana, alcuni cardini”.
Il primo di tali cardini sarebbe l’equità, che, secondo Ricotti, “vuol dire guardare a tutti, a uomini e donne, ai giovani che iniziano a lavorare, a chi ha carriere frammentate, a chi ha subìto un infortunio, a chi non è riuscito ad accumulare contributi che gli permettano di vivere dignitosamente. Equità come sinonimo anche di “ragionevolezza” e di “sostenibilità sociale”: non è equo – nel senso di ragionevole, e non è più sostenibile dalle famiglie e dai lavoratori, in un sistema di carriere sempre più frammentate e discontinue – imporre come traguardo di pensionamento anticipato 42 anni e 10 mesi di contribuzione, e come traguardo di pensionamento di vecchiaia per i giovani 71 anni di età”.
Il secondo cardine sarebbe la flessibilità: “Il montante che si accumula negli anni di lavoro è un tesoretto che il contribuente dovrebbe essere libero di utilizzare, scegliendo se anticipare o meno la pensione”.
Ricotti propone “di rendere universale e strutturale la possibilità di andare in pensione con flessibilità nelle scelte e ciò si tradurrebbe nel lasciare la libertà a ogni lavoratore di uscire dal mercato del lavoro con un minimo anagrafico (tra i 63 e i 65 anni) e un minimo contributivo (che potrebbe essere di 20 anni), stabilendo nel caso una percentuale di riduzione della quota retributiva per coloro che vanno in pensione con il sistema misto”.
In definitiva, la previdenza “deve essere costruita intorno al contesto di ogni cittadino, come un vestito su misura, e non può continuare a basarsi su iniziative spot o piccoli rattoppi che di anno in anno avvantaggiano o svantaggiano questa o quella categoria. Oggi, in un momento storico in cui la nostra generazione vivrà peggio di quella che l’ha preceduta, dobbiamo avere il coraggio di ripensare alla previdenza, rendendola più flessibile, universale ed equa, perché da una buona previdenza deriva una buona qualità della vita”.
Purtroppo Ricotti sembra ignorare che il sistema pensionistico non è uno schema a capitalizzazione, bensì a ripartizione, in cui i contributi versati sono utilizzati per pagare le pensioni in essere. Quindi ogni “flessibilità” presenta problemi di risorse necessarie a pagare le prestazioni pensionistiche. Ciò a maggior ragione in un contesto demografico di denatalità e invecchiamento.
Quanto al rimedio proposto, ossia una riduzione dell’assegno per chi anticipa l’uscita dal lavoro, sarebbe certamente una parte della soluzione. Ma si scontrerebbe inevitabilmente con un risultato che nessuno dei proponenti queste ricette vorrebbe accettare: ossia assegni molto inferiori a quelli attuali, soprattutto per chi ha versato contributi in modo discontinuo.
A quel punto spopolerebbero le proposte di integrazione con varianti del reddito di cittadinanza e altre cose simili, ponendo a carico dei pagatori di tasse una parte più o meno consistente della “flessibilità”. Sarebbe certamente preferibile un sistema in cui ognuno può decidere quando andare in pensione, ma farlo socializzandone i costi finisce inevitabilmente per caricare sulle spalle dei giovani gli oneri connessi alla pensione anticipata dei padri.
Pasti gratis non ce ne sono.
Non sono molto d’accordo sull’articolo perché contiene gli stessi errori della Legge Fornero, ovvero si fa di tutta l’erba un fascio. Nel settore previdenziale occorre differenziare, ci sono gestioni in pareggio e gestioni in passivo, c’è il settore assistenziale. Da dove iniziamo? Partiamo dall’inizio: i versamenti contributivi. Se un soggetto versa i contributi regolarmente ad un Fondo Pensione Privato, come accade in certi paesi esteri, questo fondo investirà questi soldi ed il soggetto raggiunta un età per lui adatta ad andare in pensione, perché ritiene di aver accumolato abbastanza, ha problemi di salute o di lavoro, chiede al fondo pensione di elargirgli la pensione il cui assegno sarà in funzione di quanto versato per quanti anni per quale tasso di rendimento. L’Inps o le casse previdenziali private, si devono comportare analogamente, hanno ricevuto dei soldi, li hanno investiti in immobili dati in affitto (o altro) e quindi a richiesta o al limite con un numero congruo di anni di versamento (38 o 40) , concedere senz’altro la pensione che a quel punto è un diritto. Non ha alcuna importanza che sia stato amministrato male o l’abbiano concepito come un gigantesco schema Ponzi (chi versa i contributi oggi paga le pensioni degli altri e non la sua), come per i fondi privati, in cui agisce la vigilanza ed esistono le regole della Legge Bancaria, così per l’INPS e le casse professionali private ne risponde in ultima istanza lo Stato che non può certo, giunto il momento di pagare le pensioni a chi ne ha diritto, spostare all’ultimo in avanti la data, cambiare le regole e peggio ancora stabilire regole assurde, obbligando le persone a lavorare oltre ogni limite di salute e di età al solo scopo (truffaldino) di non pagare affatto le pensioni. Non è questione di flessibilità ma di regole, l’INPS ha problemi di soldi? Bene prima si manda in galera chi ha gestito male, poi si tolgono dal calcolo tutte le spese assistenziali (maternità, cassa integrazione, ecc.) che possono essere solo a carico della fiscalità generale, poi si tolgono tutte le gestioni in passivo (ex Inpdap) o “regalate” (baby, oro e sociali) ed alla fine restano solo le pensioni della gestione speciale e degli artigiani e commercianti, che guarda caso sono in pareggio e a cui si vorrebbe far pagare i soldi regalati per le prestazioni generose delle altre pensioni. A quel punto è ovvio che le pensioni in pareggio debbano avere una gestione come con i fondi pensioni privati esteri, quando uno ritiene giusto andare in pensione ci va e l’assegno è in funzione di quanto detto prima, anni x cifra x rendimento, le prestazioni assistenziali e le pensioni “regalate” invece sono in parte o totalmente soggette alla fiscalità generale (e quindi non devono intaccare il discorso della flessibilità per quelle in pareggio), se i soldi non ci sono si dice loro chiaro e tondo “bambole non c’è una lira” e si taglierà quel che si può tagliare e si manderanno in pensione con le regole (assurde) della legge Fornero.