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Per cambiare qualcosa bisogna costruire qualcosa di nuovo

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CAMBIARE AAAdi ENZO TRENTIN

Il commento di un nostro lettore (VEDI QUI) inquadra perfettamente la questione di fondo che alcuni pseudo leader indipendentisti stentano a comprendere o non vogliono furbescamente capire: «Le generiche e prosaiche argomentazioni politiche non funzionano per agglutinare maggior consenso consapevole.» e prosegue «Forse spiegando meglio come e dove si vuol portare la gente e le imprese sarebbe uno strumento che favorirebbe l’adesione e/o il dissenso definitivo verso il progetto».

Infatti, nel corso della campagna elettorale per le regionali del 2015 si sono potuti ascoltare i discorsi più svariati, farciti di dati a volte oggettivi, a volte immaginifici, ma in nessun caso si è potuto consultare un progetto di nuovo assetto istituzionale attraverso il quale quei risultati potevano assumere credibilità. Ed il guaio è che la cosa continua, ovvero continueremo ad avere una classe politica irresponsabile che limita le nostre libertà e attenta alle nostre proprietà rendendoci moderni schiavi.

Richard Buckminster Fuller (scomparso a Los Angeles il 1º luglio 1983) è stato un inventore, architetto, designer, filosofo, scrittore e conduttore televisivo statunitense. Fu anche professore alla Southern Illinois University. Più volte abbiamo riportato questa sua affermazione: «Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta.» La riprova della bontà di questo pensiero la possiamo verificare nella parabola politica di Umberto Bossi e della Lega Nord da lui guidata. Voleva fare un nuovo Stato, ma mai presentò un progetto istituzionale credibile. A presentarlo fu Gianfranco Miglio, e subito il Senatùr sbottò: «Miglio è una scoreggia nello spazio». La verità è che dedicano monumenti e scuole a Miglio. Bossi e la LN s’impantanarono in imitazioni dell’esistente con il varo d’una associazione imprenditoriale: l’Alia, che voleva soppiantare l’Asso-industria, ma che fallì miseramente. Né diversa fortuna ebbe il superamento del sistema sindacale attraverso la creazione del sindacato padano: Simpa. Insomma, sia il partito LN, che l’Alia, come il Simpa altro non erano che scimmiottature dell’esistente, e come tali non apportarono nessun progetto innovativo adeguandosi al consociativismo e alla collusione dell’esistente sistema di potere.

E quale sia questo potere lo indica in un’intervista al quotidianoIl Corriere del Veneto” Fausto Scandola (GUARDA IL VIDEO) . È stato lui a segnalare ai vertici nazionali quelle che ritiene retribuzioni scandalosamente alte per alcuni dirigenti: «l nostri rappresentanti e dirigenti ai massimi livelli nazionali della Cisl – ha scritto – si possono ancora considerare rappresentanti sindacali dei soci finanziatori, lavoratori dipendenti e pensionati? I loro comportamenti si possono ancora considerare di esempio e guida della nostra associazione che punta a curare gli interessi dei lavoratori?». Tra gli esempi citati da Scandola (subito espulso dalla Csil): Antonino Sorgi, presidente nazionale dell’lnas-Cisl, che nel 2014 ha dichiarato 255.000 euro lordi; Valeriano Canepari, ex Presidente Caf-Cisl Nazionale, che invece avrebbe denunciato un reddito di 289.000 euro di cui 192.071 come capo della Usr-Cisl Emilia-Romagna. Canepari in un comunicato alla stampa smentisce, dichiara altre cifre e minaccia querele. Staremo a vedere. Ermenegildo Bonfantl segretario generale Fnp-Cisl, 225.000 euro, e Pierangelo Raineri, capo della Fisascat-Cisl, 237.000 euro. Fossero solo quelli! Di fatto la collusione tra partitocrazia e sindacalismo si verifica sin dalla nascita della Repubblica anche nel percorso politico di molti ex dirigenti sindacali puntualmente approdati in Parlamento. Sono passati da lungo tempo gli anni in cui i sindacati erano in gran parte una forza di stabilità e buon senso. E che dire della controparte? Di quegli imprenditori che hanno beneficiato oltremisura dell’assistenzialismo dello Stato, e che quando non è stato più possibile beneficiarne si sono trasferiti all’estero?

RASSEGNASTAMPAChe dire della libertà di stampa in Italia? Il Paese scende nell’ultima annuale classifica mondiale di Reporter senza frontiere. Si ritrova al 73esimo posto, tra la Moldavia e il Nicaragua, perdendo ben 24 posizioni dall’anno precedente. Il rapporto conta 129 cause di diffamazione “ingiustificate” contro i cronisti, nei primi 10 mesi del 2014, mentre nel 2013 il dato si era fermato a 84. La maggior parte delle cause di questo tipo sono intentate da personaggi politici, e costituiscono una forma di censura. I ricercatori citano anche la mafia italiana tra gli “agenti non statali” che soffocano l’informazione, insieme all’Isis, Boko Haram e ai cartelli della droga latinoamericani. La conseguenza di questa situazione è che i limiti della critica concessi a un giornalista che sono più ampi rispetto a quelli ammessi nel caso di privati cittadini tanto più quando contribuiscono a un dibattito su questioni di interesse generale di fatto è annullata dalle questioni “ambientali” di cui sopra. E tutto ciò in barba all’articolo 10 della Convenzione europea che assicura il diritto alla libertà di espressione, per non parlare dell’articolo 21 della Costituzione italiana.

A queste constatazioni e ad altre legittime domande affini da parte di quel circa 50% di elettori che diserta le urne, perché non si sente di votare persone che non li rappresentano, gli indipendentisti rimangono passivi. Citano sino alla nausea gli esempi catalani e scozzesi ignorando colpevolmente che entrambi possono esibire una bozza di nuovo assetto istituzionale.

Se prendiamo per buono il noto aforisma di Charles De Gaulle secondo il quale: «Gli Stati non hanno amici ma solo interessi.» quali sarebbero, per esempio, gli interessi di un indipendente Stato Veneto? 

Comunemente si ritiene che la salus rei publicae di un moderno Stato sia rapportata a quattro elementi costitutivi:

  1. garantire l’integrità del Paese ed il suo ordinamento costituzionale, tutelando le Istituzioni pubbliche e private;
  2. proteggere le persone ed i loro beni ubicati sia sul suolo nazionale sia all’estero;
  3. rendere sicura la struttura economica e tutti gli approvvigionamenti di materie prime e di materiali strategici;
  4. preservare la sovranità nazionale da sfide e pericoli, insorgenti in un quadro di relazioni sistemiche sempre più strette ed interdipendenti.

Ma prima dei predetti 4 punti: attraverso quali dottrine politico-giuridiche si affronterà il tema del potere politico e dei suoi limiti? Quali saranno i documenti solenni che legittimeranno e, allo stesso tempo, limiteranno il potere politico ed i suoi abusi?

In che modo rispondono a tali esigenze i vari partiti e movimenti politici sedicenti indipendentisti veneti? I numerosi autogoverni del popolo veneto? I movimenti di liberazione nazionale? I tribunali del popolo veneto? Solo per citare alcuni dei soggetti attivi nel panorama indipendentista e lasciando in ombra i sedicenti indipendentisti eletti nelle istituzioni italiane.

La tragedia, tuttavia, è che un danno incalcolabile è già stato fatto da un dibattito politico che – con qualche onorevole eccezione – si distingue per la sua irrilevanza nell’affrontare le sfide del mondo moderno. L’indipendentismo veneto dovrebbe, tra l’altro, discutere:

  • Su come rivoluzionare i servizi pubblici con l’impiego della tecnologia.
  • Il rischio crescente di conflitti tecnologici, dei cosiddetti cyberattack contro le strutture portanti di un Paese. Gli effetti di un conflitto condotto con questi strumenti probabilmente non sarebbero molto diversi dall’esplosione di un ordigno atomico: non solo si fermerebbero le economie, sopratutto verrebbero messi a terra gli impianti essenziali per la vita nelle città venete, ormai tutti regolati da tecnologie in qualche modo vulnerabili.
  • L’ipotesi che uno Stato violento o una coalizione di terroristi e di cybertecnici possano minacciare la vita di cinque milioni di veneti non è più una possibilità scolastica ma una delle priorità di qualsiasi governo responsabile.
  • Come aiutare i giovani non solo a trovare un lavoro soddisfacente, ma ben retribuito.
  • Come favorire lo startup d’imprese capaci di apportare benefici alla comunità o almeno a non intralciarle.
  • Come assicurare al nuovo soggetto indipendente il suo posto in Europa.
  • Su quali riforme puntare nella previdenza e nell’assistenza in un’era di cambiamenti demografici radicali.

Sono solo alcuni dei temi che abbiamo davanti. Un ventaglio enorme di scelte da fare e di risposte da offrire, ma per il momento nessun indipendentista veneto le ha neppure formulate. Già sappiamo come andrà a finire. Abbiamo già percorso questa strada. Ma oggi il seguito si annuncia molto più spaventoso che in passato. Spingere il passo oltre l’orlo dell’abisso non è moralmente accettabile, perché in questo caso si tratta di pensare alle persone che più ci stanno a cuore, e a quello che esse si aspettano dall’indipendenza. Insomma, come ci si può battere per ciò che ancora non esiste?

Ci lamentiamo della politica italiana e vorremmo una vita politica più pragmatica ed aderente alle odierne esigenze di vita, ma accettiamo il quotidiano stillicidio di ballon d’essai [il palloncino che si lanciava in aria, prima dell’ascensione d’un pallone aerostatico, per saggiare la direzione del vento] che nel linguaggio politico e giornalistico corrisponde a notizia di un fatto ancora in discussione o solo possibile, comunicata come certa per saggiare le reazioni dell’opinione pubblica?

Se questo è quello a cui gli indipendentisti sono abituati, allora anche noi lanciamo il nostro ballon d’essai: si istituisca un’assemblea costituente indipendentista, redigente non deliberante ovviamente.

  • Chi avrà il coraggio di darle un minimo di regolamentazione?
  • Chi avrà titolo per parteciparvi?
  • Come saranno scelti i partecipanti?
  • Ed in rappresentanza di chi o quali organizzazioni?
  • Quali azioni sono necessarie per rendere credibile e condivisa l’operazione?

In tale assemblea costituente indipendentista si dovrebbe rispettare il principio della maggioranza che è una importante regola democratica. Ma non è illimitata. Questo principio è valido soltanto a condizione che la decisione della maggioranza non leda dei diritti fondamentali, quali per esempio i diritti umani. D’altronde, senza diritti fondamentali, non c’è alcuna democrazia. Non si tratta di un confronto tra Stato di diritto e democrazia, ma di una interazione sensata. I diritti fondamentali sono sia i presupposti sia il risultato di una democrazia che funziona. Che sostanzialmente è ciò che ha dichiarato Simonetta Sommaruga, Ministra di giustizia della CH in occasione del Forum europeo di Lucerna, il 27 aprile 2015. In concreto un sistema istituzionale che non sia (come quello italiano) umiliato dalla conflittualità e dalla menzogna perpetue.

È una provocazione la nostra? Certo!

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