In questo periodo storico la leadership politica, in Italia, è detenuta dal Presidente della Repubblica. Gli ultimi tre Presidenti del Consiglio sono stati soggetti soprattutto alla sua fiducia. Monti, Letta e Renzi non hanno avuto neanche un’apparente investitura popolare ed hanno ottenuto la fiducia parlamentare dopo aver ottenuto la fiducia del Presidente della Repubblica. L’ultimo Presidente del Consiglio che ha ottenuto una specie di investitura popolare, Silvio Berlusconi, è stato allontanato senza che avesse subito un voto di sfiducia da parte del Parlamento. La nostra, sulla carta, è una repubblica parlamentare e la fiducia del Parlamento è l’unica forma di legittimazione del governo. Un governo legittimato dalla fiducia del Presidente della Repubblica non è previsto in un regime parlamentare. Diciamolo: siamo ormai fuori del regime parlamentare e la Costituzione del 1948 non prevede un regime presidenziale quale supplente dell’incapacità di funzionamento della Repubblica.
Di più: stendiamo un velo pietoso sulla sentenza della Corte costituzionale n. 1 – anno 2014, [VEDI QUI] laddove di dichiara l’illegittimità costituzionale di alcune norme, tra le quali l’elezione dei cosiddetti rappresentanti, per poi virare a 360 gradi, affermando: «[…] che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.» Insomma, par di capire: buona parte del Parlamento è illegittimo, ma può continuare a legiferare in barba allo Stato di diritto? Queste poche osservazioni denotano la gravità della crisi che sta attraversando la repubblica post fascista.
C’è un libro di Antonio Carioti, pubblicato ben diciassette anni fa, che si apre con un’intervista a Francesco Cossiga, presidente della Repubblica dal 3 luglio 1985 e il 28 aprile 1992. Dice, in conclusione, Cossiga: “[…] Ogni ordinamento politico si basa su una convenzione, sull’accettazione tacita della legittimità del potere da parte dell’uomo della strada. Se tale consenso implicito viene meno, se si disperdono quelli che Guglielmo Ferrero chiamava ‘geni invisibili della città’, ogni avventura diventa possibile. […]”
Una osservazione che valeva allora e che oggi mantiene la sua drammatica attualità. Le riforme occorrono, ma quali riforme? E debbono farle dei rappresentanti che non hanno l’accettazione tacita della legittimità del potere da parte dell’uomo della strada?
Nell’intervista a Cossiga si legge anche: “[…] Esistono due concezioni diverse della democrazia. Una fa riferimento direttamente ai cittadini e alle istituzioni elettive; l’altra, tuttora egemone in Italia, prevede che la sovranità popolare si esprima principalmente mediante corpi intermedi come i partiti e i sindacati… Ovviamente questa visione della democrazia ‘organizzata’ respinge pregiudizialmente il presidenzialismo, la sua vocazione è fondamentalmente consociativa …Viceversa nella democrazia liberale l’accordo di tutti è l’eccezione, mentre la norma è costituita dalla contrapposizione in campo aperto fra tesi diverse.[…]”
Sembra di capire che Francesco Cossiga sorvola tranquillamente sulla prima concezione da lui citata. Eppure altrove, (Svizzera docet) sono i cittadini stessi che attraverso le istituzioni elettive detengono la “sovranità” di determinare – a maggioranza – le norme del vivere sociale. E in questo vi è implicita la denuncia dei partiti politici quali strumento per gruppi di persone atto a prendere il potere per spartirselo consociativamente insieme al bottino di privilegi e prebende che è sotto gli occhi di qualsiasi cittadino. Parallelamente ributtante, in questa visione, è la permanente conflittualità tra “bande partitiche” per prendere il sopravvento.
Non bastasse, perché potrebbe sembrare una barzelletta e invece è la realtà, la rivista “Annales of Improbable Research” ha assegnato il “Premio Ig Nobel 2014” [VEDI QUI] all’ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica) per essersi orgogliosamente assunta il compito di gonfiare il PIL includendo i ricavi da prostituzione, vendita di droghe illegali, contrabbando e tutte le altre operazioni finanziarie illecite. Insomma, il vero motore dell’economia nazionale, secondo gli ultimi studi di settore, non sarebbero le public relations con la Cina per esportare caciotte confezionate con atavica saggezza, ma la prostituzione, lo spaccio di droga, il contrabbando. Massimo profitto economico, nessuna spesa di cancelleria e, soprattutto, niente scioperi. Una situazione tragica, ma non seria.
A questo punto osserviamo come ci siano gruppi di persone, riunitisi in movimenti e partiti, che elaborano “percorsi legali” indipendentisti. Parlare di legalità in questo contesto appare quanto meno singolare. Non c’è dubbio che esistono più vie all’indipendenza, ma a nostro modesto parere la questione va affrontata in maniera più pragmatica.
Per esempio: abbiamo già scritto del fatto che il canale di Suez (Egitto) fra cinque anni raddoppierà. La nuova apertura ridurrà da 1 a 3 ore il tempo di percorrenza del corso d’acqua che separa Suez, nel mar Rosso, da Port Said, nel mar Mediterraneo. I transiti aumenteranno da 49 a 97 navi al giorno. Venezia e i porti dell’alto adriatico, dovrebbero essere in prima posizione per utilizzare le nuove potenzialità dell’incremento del traffico marittimo. Ad oggi la maggior parte del traffico mediterraneo si dirige nel nord Europa ad Anversa (Belgio) e Rotterdeam (Olanda) impiegando cinque/sei giorni a raggiungerle, mentre nei porti dell’alto Adriatico arriverebbero in un giorno o due.
Oltre il 70% dei flussi commerciali, circa 40 miliardi di euro, avviene via mare e il Mediterraneo intercetta il 19% del traffico marittimo mondiale. I flussi commerciali mediterranei potrebbero raggiungere il Veneto a patto di creare condizioni interne favorevoli allo sviluppo degli investimenti, contrastando i fattori che limitano le potenzialità rappresentate dalla naturale piattaforma logistica al traffico di merci: i vincoli burocratici, l’incertezza della giustizia civile e penale. Le inefficienze storiche dell’Italia sono note. Insomma, occorre attrezzare anche gli entroterra e la rete ferroviaria per garantire collegamenti adeguati con il territorio. Ma soprattutto gli indipendentisti veneti hanno tutto l’interesse a prefigurare un ordinamento istituzionale ex novo.
Occorre anche far tesoro delle esperienze maturate dal referendum scozzese. Alcune ragioni del prevalere degli unionisti della GB ci sono ora note. I veneti debbono riuscire a trovare le risposte più adeguate. Se, per esempio, il petrolio del mare del Nord rappresentava uno dei motivi di indipendenza economica, il raddoppiato traffico mediterraneo ottenibile con il raddoppio del canale di Seuz, è un vantaggio competitivo di grande importanza. È sufficiente guardare una qualsiasi mappa per rendersi conto di quanto Venezia e l’alto Adriatico rappresentino una scorciatoia a chi oggi è costretto – partendo da Suez – a percorrere l’intero Mediterraneo da Est a Ovest, per poi superare lo Stretto di Gibilterra, e percorrere con rotta Nord l’intera penisola iberica, il golfo di Biscaglia, il canale della Manica, per approdare infine ad Anversa e Rotterdeam.
A sostegno di quest’idea è utile ricordare quello che accadde il 26 luglio 1956, ovvero l’annuncio della nazionalizzazione del Canale di Suez durante un comizio ad Alessandria, del Presidente Egiziano Gamal Nasser. Fu uno degli eventi, che dopo la fine della seconda guerra mondiale, portarono il mondo molto vicino ad un nuovo conflitto mondiale. I motivi per cui Nasser volle nazionalizzare il canale (al tempo la società di gestione era per il 44% controllato da banche e aziende britanniche e l’altra metà di francesi) era legato alla diga di Assuan. Nasser nazionalizzò la società dello stretto per incamerare i fondi necessari per la costruzione della diga. Le entrate annuali del Canale erano, al tempo, circa 100 milioni di dollari all’anno. La notizia fu accolta con grande entusiasmo dagli egiziani. Le Nazioni Unite, grazie anche ai veti, non condannò l’atto di nazionalizzazione, ma chiese al governo egiziano di rispettare alcune regole sul passaggio delle navi.
Se militarmente l’operazione a Suez fu un successo, diplomaticamente si rivelò un totale fallimento. Il 7 novembre 1956 le Nazioni Unite votarono il posizionamento di una forza di pace (UNEF – Forza di Emergenza delle Nazioni Unite) che già dal 15 novembre sbarcò sul campo. Il 10 gennaio 1957 il primo ministro britannico Eden fu costretto alle dimissioni. Tra febbraio e marzo avvenne – sotto il controllo delle Nazioni Unite – il ritiro delle truppe israeliane e di quelle anglo-francesi. La missione delle NU restò sul Canale fino al maggio 1967. La vittoria egiziana rinforzò enormemente il prestigio di Gamel Nasser nel mondo arabo e diede la spallata finale alla caduta dell’impero coloniale britannico e di quello francese africano che da lì a pochi anni collassarono. La diga di Assuan fu costruita. La Suez Canal Authority (SCA), nata a seguito della nazionalizzazione è ancora oggi un’azienda pubblica egiziana che gestisce il Canale di Suez.
Se questo scenario è oggi superato oltre che impossibile ed improbabile in Italia, c’è tuttavia da osservare che se i governanti di questo paese avessero a cuore le sorti delle genti che lo abitano, uno dei primi provvedimenti per rilanciare l’economia italiana sarebbe proprio quello di infrastrutturare i porti della penisola da sud a nord; ma chi ne ha mai sentito parlare da Renzi & Co.? Suvvia, dunque, Veneti! Un po’ di pragmatismo. Meno politica politicante, e più progettazione istituzionale ed economica. Conditio sine qua non per la secessione!