La conferma di Zaia governatore del Veneto, il crescente successo e la radicale trasformazione della Lega Nord, i voti per i partiti dell’indipendentismo veneto sono fatti che molte persone osservano con attenzione e speranza perché, come è già stato scritto, il Veneto resta il territorio che meglio risponde alle istanze indipendentiste.
E’ già stato denunciato il fatto che i partiti indipendentisti, ripetendo sempre i soliti errori, riducono le chance di liberazione dei Veneti dall’oppressione dello stato italiano. Non sembra ancora delinearsi, però, un’identità di vedute circa le occasioni che si presentano all’indipendentismo veneto. C’è bisogno di un partito autenticamente indipendentista capace di esprimere una vera leadership ed un progetto istituzionale credibile? Questo partito deve presentare propri candidati alle elezioni politiche, regionali, amministrative? La Lega Nord rappresenta un ostacolo o è l’unico strumento tuttora efficace per rappresentare il nord produttivo? Oppure c’è bisogno di un movimento che, disinteressandosi delle competizioni elettorali italiane, rianimi tutto l’indipendentismo, attualmente sparpagliato tra varie esperienze tutte invariabilmente accomunate dall’appassionata adesione, diretta o indiretta, alle suddette competizioni? Non ci si dimentichi che, stante il medesimo scopo, l’individuazione di diverse opportunità è la conseguenza di diverse credenze circa la democraticità dello stato italiano, l’abilità di questo o quest’altro politico, le caratteristiche del popolo veneto etc. Si tratta di convinzioni che, in qualche caso, anche le prove più evidenti faticano a dissipare.
Il direttore Gianluca Marchi invita il mondo indipendentista a ripartire da zero, perché le esperienze fin qui praticate non danno i risultati sperati.
Per ripartire da zero bisognerà, però, considerare le spinte e le attrazioni che muovono i Veneti verso l’ipotesi di indipendenza dall’Italia. Bisognerà valutare le preferenze elettorali alla luce degli interessi e delle passioni dei Veneti. Senza questo lavoro preliminare e senza una vera consapevolezza del grado di sfruttamento che i popoli padani patiscono e, infine, senza una vera cognizione di quale pericolo l’indipendenza del Veneto rappresenti per tutti parassiti che vivono all’ombra dello stato italiano, resta difficile individuare nuove opportunità.
Accanto all’ovvia constatazione che l’indipendenza del Veneto non può passare esclusivamente dall’elezione e dal lavoro del governatore Zaia o dai successi del partito della Lega Nord (quand’anche questo lavoro fosse in parte indirizzato verso l’orizzonte del referendum consultivo sull’indipendenza o sull’autonomia del Veneto), penso che sia utile distinguere le motivazioni degli elettori dell’autorevole esponente leghista. Tra di esse dobbiamo includere le convenienze di tanti bravi Veneti, buoni lavoratori ma dipendenti dal denaro raccolto con le tasse: gente, insomma, che nel rapporto con l’amministrazione pubblica ci guadagna o pensa di guadagnarci. Dobbiamo includere il senso di identità dell’elettore leghista che, nonostante qualche confusione e molta disponibilità a seguire fedelmente le indicazioni ed i pensieri dei capi che si avvicendano nel partito, in fondo resta autenticamente e primariamente Veneto ed allergico al meridionalismo. Dobbiamo includere gli interessi dell’imprenditore o del suo lavoratore dipendente che, invece, nel rapporto con l’istituzione pubblica pensa, giustamente, di perderci. Possiamo perfino aggiungere gli interessi di “imprenditori” più grandi che invece dal rapporto con l’amministrazione pubblica solitamente ci guadagnano. In altre parole non ci si sorprenda del fatto che le motivazioni degli elettori che hanno votato Luca Zaia sono diverse e contraddittorie. Un solo elemento mi pare si possa escludere dal novero delle motivazioni che portano a votare il rieletto governatore del Veneto: un vivo sentore di identità italiana, un amore viscerale per il tricolore.
Bisogna poi ricordare che tutti gli elettori, indipendentemente dalle loro motivazioni, nel momento stesso in cui depositano nelle urne italiane la loro scheda italiana manifestano la loro moderazione: il 50% dei Veneti non rinuncia alla celebrazione dello spettacolo della partecipazione democratica, grazie al quale l’azione collettiva che ha per scopo la lotta per il potere ed il governo della società si conclude perlopiù in televisione, riconfermando la divisione della società tra produttori e parassiti.
Le motivazioni che portano a votare gli altri partiti indipendentisti, associati o non associati alla Lega Nord, sono grossomodo le stesse: identità veneta, interesse personale, avversione o allergia a tutto ciò che odora di italiano, moderazione.
Questa è, a grandi linee, la composizione di una parte dell’elettorato veneto. Dall’altra ci stanno gli italiani, insieme, forse, a qualche indeciso (l’indecisione, in fatto di appartenenza, amore, affetto verso un territorio non è, a mio parere, uno stato d’animo di per se stesso deprecabile; semmai manifesta un vago e confuso desiderio di universalità tipicamente umano o una, magari giustificata, delusione d’amore verso il popolo di cui si era parte. In effetti non si può decidere di amare la propria terra, più o meno come non si può decidere di addormentarsi, di arrabbiarsi, di provare invidia o gratitudine).
I migliori indipendentisti veneti, lombardi, padani si trovano a combattere la loro battaglia al fianco del popolo veneto, che può liberare tutti ma che attualmente funziona come ogni altro popolo padano: i Veneti, come i Lombardi, i Friulani, gli Altoatesini ed i Triestini vanno a votare per riservare nelle istituzioni dello stato italiano un posticino a persone cui affidano il compito di alimentare quasi-credenze consolatorie sull’indipendenza. Si tratta di un contributo positivo al funzionamento del medesimo stato dal quale si desidera secedere ma rispetto al quale si pensa sia attualmente sconveniente ingaggiare pratiche libertarie più apertamente conflittuali (con il termine sconvenienza si vuol far riferimento sia alla convinzione che non conviene lottare apertamente contro lo stato italiano, sia alla norma sociale che qualifica come disprezzabili le azioni di lotta, di aperta manifestazione di dissenso e di disobbedienza civile, atteggiamento questo tipicamente moderato).
L’insuccesso dei piccoli partiti indipendentisti è la conseguenza di un atteggiamento molto italiano che i loro capi hanno: piagnucolare sullo stato della democrazia rappresentativa italiana, salvo poi far la fila per contribuire al suo funzionamento. Detto con il linguaggio della sociologia analitica, le due condizioni principali affinché l’elettore veneto che desidera l’indipendenza voti il piccolo partito indipendentista sono: a) una fiducia illimitata verso il capo del medesimo partito, b) la credenza che il sistema democratico italiano non escluda tra le sue possibili dinamiche anche quella finalizzata alla disintegrazione dello stato italiano. Da notare che sono le medesime condizioni grazie alle quali un Veneto che desidera l’indipendenza può votare per la Lega Nord; la differenza dei risultati elettorali è data, perciò, solamente dalla convinzione, evidentemente molto diffusa, che la dimensione del partito costituisca una importante garanzia di successo finale (d’altronde gli stessi piccoli partiti fanno di tutto per diventare più grandi). Però non ci si dimentichi che tra gli stessi Veneti che desiderano l’indipendenza, per nostra fortuna, la fiducia verso i politici è in non pochi casi condizionata dai risultati e l’irrazionale credenza nelle virtù libertarie delle istituzioni politiche italiane non riguarda, attualmente, più del 50% della popolazione.
Esaminata la sommatoria delle motivazioni e le credenze irrazionali che determinano, insieme ad altri fattori, i risultati elettorali, guardiamo per un attimo al nostro ombelico. Gli articoli di Trentin e di Facco hanno da tempo indicato il rapporto di contraddizione tra le istituzioni politiche italiane e l’obiettivo della secessione. Al lettore del Miglioverde.eu non mancano, grazie agli articoli di autorevoli collaboratori come Guglielmo Piombini o Luca Fusari, i suggerimenti circa i numerosi contributi intellettuali che spiegano perché le democrazie rappresentative statual-nazionali e sovra nazionali sono inadeguate ed ostacolano il progresso delle libertà individuali e dell’autodeterminazione dei popoli nella società. Resta un mistero il motivo per cui ancora, nel campo indipendentista, ci si ostini a considerare lo stato italiano l’oggetto di possibili soluzioni, lo scenario di sudate vittorie o di deludenti sconfitte, invece che, ripetendo Oneto, il nostro primo e più grave problema da risolvere. E’ forse un azzardo dire che attualmente, in Italia, la prevalenza del desiderio indipendentista, lo sforzo rivolto al raggiungimento di credenze razionali, il sano sentimento di indignazione verso le numerose ingiustizie perpetrate dallo stato italiano sui produttori padani, si manifestano, sul piano delle scelte individuali, nella rinuncia a cooperare con qualsiasi organizzazione politica che in vario modo collabori con le istituzioni politiche italiane? Sono dell’idea che perfino alcuni indipendentisti (e tra questi potrebbero anche esserci i capi ed i militanti di piccole e di grandi organizzazioni), considerino ancora la disobbedienza civile, la lotta libertaria contro lo stato italiano, l’azione collettiva che lascia emergere le contraddizioni di un’architettura istituzionale antiquata e strutturalmente ostacolante alcuni importanti principi del federalismo quali sussidiarietà orizzontale, verticale e democrazia diretta, soluzioni inadeguate alla bisogna.
Ma, chiedo, questo giudizio di inadeguatezza è dettato da una razionale considerazione delle opportunità relative agli obiettivi di cambiare l’architettura istituzionale, di superare gli stati-nazione, di affermare principi di libertà dei popoli? Oppure da un calcolo relativo alle opportunità di perseguire, mediante elezioni italiane, l’obiettivo di accrescimento del proprio potere personale, foss’anche un potere immaginario, una fantasia alimentata dalla vicinanza con chi il potere lo ha veramente? Il consenso elettorale, centrale nell’immaginario di tutte le persone che credono nelle virtù democratiche dello stato italiano, è la risposta a queste domande. Si tratta, a mio parere, di un grosso problema perché, paradossalmente, intimidisce anche e soprattutto chi in cuor suo desidera che aumentino le libertà di scegliere con chi cooperare, con quali popoli associarsi in comuni istituzioni e da quali dissociarsi. Il timore di non avere voti a sufficienza è poi il timore di non partecipare, direttamente o per interposta persona, ai lavori delle istituzioni italiane. E’ un timore che ostacola l’innesco di un’azione collettiva forse non appagante sul piano del consenso elettorale, ma indispensabile alla realizzazione di un obiettivo che, vale ricordarlo, corrisponde al disconoscimento dei principi sui quali si fonda l’Italia: una, indivisibile e sovrana. Un movimento indipendentista, proprio perché non cerca il voto della moderazione, può sollecitare l’espressione del desiderio di liberarsi dai vincoli imposti dallo stato italiano, la comprensione della necessità di liberarsi dallo stato italiano, il coraggio di liberarsi dallo stato italiano.
Viste poi le sopra elencate motivazioni dell’elettore di Zaia, il livello di astensione dei Veneti schifati dalla politica, la sempre più diffusa simpatia che le iniziative indipendentiste ed anti-stataliste hanno suscitato negli ultimi due anni, viene da pensare che affrontare già da ora lo stato italiano con le pratiche di disobbedienza civile risulti appagante anche dal punto di vista dell’approvazione di molte persone che magari non sono nelle condizioni di partecipare direttamente; certamente di chi desidera l’indipendenza. Benché il valore dell’attività di un movimento indipendentista sia da valutare soprattutto sul piano qualitativo, è possibile che nel mondo indipendentista non ci sia una vera consapevolezza della quantità di persone per bene che vogliono liberarsi dallo stato italiano e sono pronta, in vario modo, ad agire. Solo a leggere i nomi di chi, scrivendo, manifesta desideri indipendentisti, sulla rete si supera ampiamente il numero cinquecento. Se è vero che il mondo indipendentista si sta perdendo un po’ troppo nella scrittura (ed anche io, mio malgrado, contribuisco a questo spreco di risorse), negli schermi dei social network e nei partiti (e qui, invece, di mio non ci metto nulla), resta stimabile in più di cinquemila il numero di persone che potrebbero partecipare direttamente alle iniziative di un movimento indipendentista che fa del decentramento delle decisioni, della comunanza del desiderio, e dell’azione libertaria i propri tratti caratteristici. Non parliamo dei milioni di simpatizzanti padani, gente concreta, non ancora italianizzata, attratta, più che dalle chiacchiere, dai fatti.
Le persone che volessero entrare liberamente a far par parte di un movimento indipendentista estraneo e disinteressato alle vicende di piccoli e grandi partiti che pretendono di conservare una qualche parentela con l’indipendentismo (un movimento indisponibile alle elezioni e non ossessionato dai successi e dagli insuccessi di Salvini, Morosin ed altri protagonisti delle competizioni elettorali italiane), potrebbero discutere, inventare, elaborare e realizzare le azioni di disobbedienza civile, per finirla con inutili, ridondanti ed in qualche caso ridicoli volantinaggi, ripetitivi convegni e varie raccolte di firme che aggiungeranno qualche cognome nel data base: la solita propaganda dei partiti. Non si tratta più di “interpretare nelle sedi opportune” la moderazione ed i timori del popolo, ma di incarnare i desideri di libertà ed i principi che distinguono un popolo civile da un popolo servile; i principi che distinguono una persona libera che vuole vivere del frutto del proprio onesto lavoro, da piccoli e grandi burocrati che sfruttano il lavoro degli altri senza fare un cazzo dal mattino alla sera, sdraiati tutto il giorno all’ombra dello stato italiano. Guai se un movimento indipendentista iniziasse a rappresentare nel teatro della politica il desiderio di indipendenza, come fanno i partiti; si tratta, invece, di richiamare chi si rimbocca le maniche e mette in scena il vero smontamento del palcoscenico e dell’annesso sipario tricolore che non vuole calare mai.
L’unica occasione che oggi si presenta agli individui che desiderano metter una pietra sopra ad un secolo e mezzo d’Italia è quella di un movimento anti-statalista ed indipendentista che recupera in Padania l’agire che libera tutti. I partiti ormai possono solo evocare obiettivi radiosi spostandoli ogni giorno più in là, lontani, sempre più lontani in un futuro che neanche si vede più. Lo fanno per continuare a raccogliere i voti della pavida moderazione, sui quali inciampa l’indipendenza e prospera lo stato italiano.
Penso che l’errore sia quello di voler sconfiggere gli italiani giocando con le loro regole. Questo vuol dire che candidarsi alle elezioni, sperare di avere seggi per cambiare le cose è inutile, l’esperienza del M5S ce lo insegna.
Forse potrebbe servire candidarsi solo alle elezioni regionali per fare quelle cose che la Lega ha minacciato e chissà se mai le farà: trattenere tutte le tasse sul territorio, stop agli immigrati e così via.
Essere presenti alle elezioni regionali può servire anche per l’autodeterminazione che se non sbaglio può essere chiesta da elementi eletti e votati.
Sicuramente la strada migliore sarebbe quella della disobbedienza civile e fiscale, ma sappiamo che senza supporto gli imprenditori, i cittadini non la seguiranno.
La Lega rimane una via possibile, l’esperienza della Liguria in parte lo insegna: il Governatore è Toti, di Forza Italia, ma la Lega ha la maggioranza dei voti rispetto a F.I. quindi condiziona le sue scelte, come dimostra l’adesione di Toti al blocco agli immigrati a fianco di Lombardia e Veneto. Analogamente avere la Lega che governa ma con un forte supporto di liste e voti indipendentisti non potrebbe che condizionarne le decisioni.
Io resto dell’idea di seguire altre strade, l’Italia prima o poi si dissolverà, entrerà in crisi finanziaria come la Grecia e a quel punto occorre già essere pronti: un governo provvisorio, una Costituzione, delle leggi (basta copiare quelle svizzere, non si deve inventare nulla), ecc.
Quel che ci mancano sono azioni più incisive, di quelle di cui parlerebbe tutto il mondo, per far capire che non siamo italiani e che siamo sotto occupazione.