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Perché l’Italia non può produrre un Milei

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di MARCO BASSANI

Molti anni fa, in occasione di uno dei ricorrenti default argentini, un amico giornalista mi chiamò e mi chiese se conoscessi qualcosa di quel paese. Nulla, fu la mia franca risposta, però ti dirò quale è il vero problema della patria di Maradona e del Tango: si tratta di un enorme Mezzogiorno, che vuole vivere con politiche tipiche dell’assistenzialismo meridionale, senza una Lombardia o un Veneto. In breve, vogliono vivere da parassiti senza aree da parassitare.

Quello che mi sembrava il punto dolente di un paese che poco più di un secolo fa era considerato fra i meno poveri del mondo, si è rivelato solo venti anni dopo il suo vero ed unico punto di forza. Gli argentini si sono trovati contro un muro, hanno fatto l’ennesimo bagno di realtà economica e hanno scelto di cambiare radicalmente percorso. Le parole d’ordine peroniste (ossia il libercolo delle lamentazioni che viene ripetuto ogni giorno dal più famoso argentino del pianeta contro il capitalismo, i ricchi, gli sfruttatori) non erano più in grado di scuotere gli animi dopo essere state il credo politico ufficiale per oltre ottanta anni.

Brevi cenni di storia economica

Oltre un secolo fa l’Argentina era fra i dieci paesi più ricchi al mondo, con un reddito per persona ben superiore a Francia, Germania e Italia. Mentre fino alla Seconda Guerra mondiale il reddito pro-capite degli argentini non era molto al di sotto di quello del paese più ricco del mondo, gli Stati Uniti, oggi è di meno di un quinto. L’inabissamento dell’economia argentina ha avuto nel corso del Dopoguerra un’unica colonna sonora: il patriottismo socialista di Juan Peron, rivisitato in tutte le salse, che è qualcosa che dovrebbe suonare molto familiare alle orecchie di un italiano. Si tratta, infatti, di una sorta di fascio-comunismo democratico il cui vero cemento ideologico era la denuncia dei guasti provocati dall’economia di mercato e l’esaltazione del ruolo dello Stato nel combattere le miserie prodotte dal lavoro salariato. In breve, il peronismo si fonda su un credo piuttosto semplice: il capitalismo è il male e il governo è la cura.

Per la prima volta nella storia di qualunque area del globo terraqueo, la maggioranza di un paese ha smesso di credere alla politica e ha abbracciato una vera rivoluzione copernicana. Javier Milei, un professore di economia che in pochi anni ha preso il centro della scena politica come intransigente difensore del libero mercato e del capitalismo del laissez faire. Improvvisamente, ossia nel breve volgere di un paio di anni, da radice di tutti i problemi, la libertà di mercato è stata propagandata e percepita come l’unica soluzione rimasta. Riuscirà il professor Milei a ribaltare come calzino un paese che sembrava destinato ad inabissarsi a causa della sua subcultura politica? Difficile dirlo, ma il semplice fatto che un paese abbia democraticamente deciso di adottare una via senza precedenti, almeno dal punto di vista ideologico, deve essere salutato con grande speranza da tutti coloro che amano la libertà. Infatti, la sua ricetta non ha nulla di astruso, si fonda su di una preferenza: meglio le libere scelte degli individui sul mercato che le decisioni delle burocrazie illuminate, meglio la libertà della coercizione. Non avendo ormai altra scelta, e in attesa del prossimo ennesimo fallimento, gli argentini hanno deciso di scommettere sul loro futuro, lasciando di stucco le loro classi burocratiche e parassitarie, da decenni aduse a vivere di prebende pubbliche e a gridare che il popolo si impoveriva a causa del “neoliberismo”. Anche questa cosa che dovrebbe suonare ben nota ai padiglioni auricolari del volgo italico, che ha sentito addebitare tutte le disgrazie della penisola proprio al “liberismo selvaggio”, mentre si stava inabissando sotto i colpi del più spietato fra gli statalismi del pianeta.

Però torniamo al principio. È vero che l’Argentina non ha aree da parassitare: è un enorme Meridione senza un barlume di Padania, per usare un linguaggio vetero-leghista. Ma questa, insieme alla gioventù della popolazione si è rivelata la forza dell’incantevole paese australe.

Travolta da una crisi strisciante che ha più di trent’anni e da una decrescita davvero infelice, che ha privato una generazione e mezza di qualunque aumento di ricchezza, l’Italia è nei fatti un’Argentina potenziale che solo l’enorme accumulazione di ricchezza dal 1896 al 1992 (crescita media del 2,4%, fra le più alte al mondo) riesce ancora a tenere fuori da un terzo mondo indifferenziato. Visto che il refrain del declino italiano è nei fatti assai simile a quello argentino (il liberismo selvaggio è il male, il governo la cura, più pubblico e meno privato la soluzione di ogni problema, il debito più ce n’è e meglio è) qualcuno potrebbe sognare un Milei al posto degli statalismi di destra e di sinistra che hanno affondato il paese.

Il fatto è che in Italia si “naviga a vista” senza nessuna prospettiva di fuoriuscita dalla decrescita da oltre un quarto di secolo. Nessun politico parla neanche del fatto che dopo Venezuela e Zimbabwe questo paese sia quello che è cresciuto di meno al mondo. Si ritiene impossibile cambiare lo stato di cose esistenti. Non esiste nessuna visione globale sul futuro he possa scuotere gli elettori che intuiscono ormai come l’Italia non abbia problemi, ma sia il problema.

I giornalisti, per lo più assolutamente digiuni di questioni economiche, negli anni di Monti avevano trovato un termometro di nome spread per misurare la febbre, abbassatosi da anni lo spread non riescono a capire che la situazione è invero peggiorata enormemente. Nessuno riesce a metter mano a nulla: spesa pubblica, debito e rapina fiscale (ai danni dei singoli, delle imprese e di alcuni territori, Lombardia e Veneto in primo luogo).

In Italia il declino si è sostanziato nel più grande trasferimento di ricchezza dal settore privato a quello pubblico della storia umana. Stiamo per arrivare a tremila miliardi di debito pubblico, ossia un PIL e mezzo, mentre 13 anni fa, quando Silvio Berlusconi fu cacciato dal governo “per mettere in sicurezza i conti pubblici” era poco più di mille e novecento. I risanatori dei conti pubblici hanno creato una voragine che in ogni altro paese sarebbe oggetto di dibattiti e preoccupazioni, qui si tratta solo di un fallimento ormai certificato. E allora perché non sognare anche qui un Milei? Perché non sperare in un liberista selvaggio che venga a narrare la poetica della libertà e del mercato? Che levi alte le grida di basta tasse, basta debito!

Dalla lotta di classe alla lotta di tasse

Il motivo per cui non ha senso sognare un Milei italiano è molto semplice. Perché le tasse e il debito sono consustanziali alla nostra vita politica nazionale, fondata sul culto dello Stato di una nazione mai costruita. Occorre un breve schemino per far capire come sognare Milei possa essere rinfrescante, ma poco realistico. Lo Stato non produce ricchezza, la sposta dalle tasche di alcuni per metterla nelle tasche di altri. L’azione fiscale del governo crea per sua stessa natura due gruppi contrapposti: i produttori di tasse e i consumatori di tasse. Se anche le tasse fossero utilizzate benissimo dalla burocrazia illuminata, come minimo accadrebbe che la casta burocratica stessa vivrebbe alle spalle degli altri. La politica dovrebbe riuscire a mascherare chi le tasse le produce e chi le consuma, mantenendo quella che è la geniale definizione prodotta da un geniale economista francese nell’Ottocento: “Lo Stato è la finzione secondo la quale tutti credono di poter vivere alle spalle di tutti gli altri”.

In Italia, il debito, il suo mantenimento e la rapina della Lombardia e delle altre regioni produttive hanno fatto saltare la possibilità di questa finzione. È ormai impossibile credere di esser parte di una ragnatela di relazione statuali dalle quali guadagniamo e perdiamo un po’ tutti. Chi paga e chi riceve, chi tiene i cordoni della borsa e chi la borsa la riempie e basta è il segreto di Pulcinella.  Vi è una “lotta di tasse” fra chi esige più welfare e “diritti di cittadinanza” e chi sa perfettamente che deve pagare tutto ciò. Lo Stato, sorto per creare l’“ordine politico” è diventato ormai solo lo strumento del parassitismo politico. La particolarità italiana, unica al mondo, è che da noi l’area del parassitismo e quella produttività seguono linee geografiche chiare e distinte. Che sono anche confini regionali. Quindi non si può gridare basta tasse, basta debito senza aggiungere basta Roma.

Il sistema fiscale italiano è destinato a riprodurre il calabrese e il lombardo all’infinito. Un dato di qualche anno fa, ma sempiterno nella sua portata tragica, illustra plasticamente tutto: per generare un euro di spesa pubblica sul proprio territorio il contribuente lombardo versa al fisco 2,45 euro, al contribuente calabrese basterà il pagamento di 27 centesimi di euro per ottenere lo stesso risultato. Sarà allora razionale, almeno nel breve periodo, difendere l’attuale sistema in Calabria, ma appare semplicemente folle la sua difesa in Lombardia. Nessuno è in grado di infrangere quel “soffitto di cristallo” che impedisce alla visione sociale che pone al centro la libertà della persona umana di essere conosciuta e apprezzata in questo paese. Perché per farlo occorrerebbe mettere in crisi le politiche clientelari e assistenziali che accompagnano il cammino nazionale. In breve noi siamo una Baviera appiccicata a un’Argentina con travasi costanti di soldi e questo significa che affogheremo lentamente insieme.

L’unità non giova a nessuno

In quelle che sono con ogni probabilità le ultime parole immaginate per la pubblicazione, il mio maestro Gianfranco Miglio scriveva: «I nostri connazionali non possono tornare indietro, ed “affondare”, tutti insieme, in un Mediterraneo abitato da popoli tagliati fuori dall’economia veramente competitiva, e intristiti da miserevoli paghe pubbliche. Ma non vogliono neanche rischiare di fare la rivoluzione, per la loro pusillanimità. Per una viltà che impedisce loro di vedere come lo Stato “unitario” possa essere salvato solo disfacendolo per rifarlo in modo diverso».

La demarcazione geografica del problema Italia offre anche il destro per la sua soluzione. Se solo gli individui, regione dopo regione, riusciranno a capire che la gabbia può essere spezzata a partire dal fantoccio di un’unità che non giova a nessuno e che sta trascinando il Mezzogiorno “a Sud di nessun Nord”.

*Professore ordinario UniPegaso

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1 COMMENT

  1. la realtà è molto più semplice di quel che si pensa e si espleta nella seguente frase:

    “azzerare o diminuire drasticamente il debito è possibile ma ciò eliminerebbe la gallina dalle uova d’oro che il sistema bancario alleva da sempre”

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