di MATTEO CORSINI
Come è noto, la legislazione in materia previdenziale cambia sostanzialmente ogni anno. L’unica costante è rappresentata dal fatto che il sistema a ripartizione (schema Ponzi) italiano rimane tendenzialmente insolvente, con prospettive miserrime per i futuri pensionati. Tuttavia ciò che non ha un impatto immediato non è considerato un problema, mentre i voti si prendono favorendo gli attuali pensionandi.
Un sistema a ripartizione, a prescindere da qualsivoglia considerazione sulla sua legittimità, funziona se il Paese cresce economicamente e demograficamente. In caso contrario devono aumentare i contributi a carico di chi lavora e della fiscalità generale, a parità di benefici per i pensionati. Ma quanto peggiori sono le dinamiche economiche e demografiche, tanto più insostenibili diventano gli oneri a carico di chi paga contributi e tasse.
Adesso pare che il nuovo governo voglia consentire il pensionamento con 41 anni di contributi versati e 62 di età.
Secondo il segretario confederale della Uil, Domenico Proietti, però, “41 anni di contribuzione devono bastare senza penalizzazioni”. Aggiungendo che “tutto ha un prezzo, ma vorrei ricordare che le pensioni sono frutto di contributi versati dai lavoratori quindi non sono un costo, anche se una svolta reale al sistema si potrebbe dare separando l’assitenza dalla previdenza. Un errore non fare questa scelta, perche’ la nostra spesa pensionistica separata da quella assistenziale è perfettamente in linea con gli altri paesi europei e si aggira intorno al 13,5% del Pil.”
Purtroppo la verità è un’altra. In primo luogo, le pensioni ancora in parte basate sul metodo retributivo non dipendono esclusivamente dai contributi versati, quindi sono almeno parzialmente un costo. In secondo luogo, anche nel caso degli assegni totalmente basati sul metodo contributivo c’è un problema di cassa, dato che il sistema è a ripartizione. Quindi sono sempre i contributi versati oggi a pagare le pensioni in essere. Last, but not least, separare previdenza e assistenza avrebbe un effetto ottico e contabile, ma non ridurrebbe l’onere complessivo per chi versa contributi e tasse di un solo centesimo.
In ultima analisi, è sempre chi paga contributi e tasse a sopportare l’onere delle prestazioni previdenziali e assistenziali. L’alternativa sarebbe il passaggio a un sistema a capitalizzazione, tenendo comunque presente che ciò comporterebbe assegni da indigenza per una moltitudine di persone. Quindi tale passaggio avrebbe senso in un contesto di ridimensionamento del welfare state. Altrimenti ciò che esce dalla porta rientrerebbe dalla finestra e il conto a carico dei pagatori di tasse continuerebbe a non diminuire.
Probabilità che il ridimensionamento del welfare state accada? Pressoche nulle. Ma se almeno si smettesse di raccontare cose non vere sarebbe un (seppur piccolo) passo avanti.
In realtà separare assistenza e previdenza più che un effetto ottico, sarebbe un effetto di corretta rappresentazione contabile. All’estero vedono che la spesa pensionistica italiana è troppo alta, quando arriva il solito non eletto e non votato gradito alla Ue, per prima cosa gli impongono di tagliare la spesa pensionistica (vedi Fornero) con il risultato che l’assistenza non viene tagliata, le pensioni “regalate” (oro, baby, sociali, ecc.) non vengono toccate (i diritti acquisiti) e chi se lo prende in saccoccia sono gli unici che non dovrebbero essere penalizzati, ovvero i lavoratori che hanno sempre versato i contributi ed avrebbero (loro si) tutto il diritto di andare in pensione dopo 40 anni di contributi. Quindi che si separi l’assistenza dalla previdenza, così che oltr’alpe sia chiaro che la nostra spesa pensionistica è in linea con quella di altri paesi. Poi sarebbe auspicabile separare la gestioni pensionistiche in pareggio o attive (commercianti/artigiani, speciale) da quelle “generose” o in passivo. Così che sia chiaro che se ci sono tagli da fare le uniche da non toccare e penalizzare sono le gestioni in pareggio.