«Viral Acharya (della New York University) esplora i vantaggi e gli svantaggi del Qe. I primi, come detto, stanno nel sostegno alla domanda, i secondi stanno nel fatto che l’accresciuta liquidità permette operazioni di scarsa utilità sociale come i ‘carry trade’. La raccomandazione è questa: quando c’è ragione di ritenere che gli effetti sulla domanda ci siano, il Qe dovrebbe essere particolarmente aggressivo, così da far prosciugare dalla domanda quei fondi che altrimenti sarebbero finiti nei ‘carry trade’». Nel rendere conto delle analisi presentate da diversi ricercatori a un convegno su tematiche monetarie, Fabrizio Galimberti si sofferma su vantaggi e svantaggi del Qe.
Trai i primi mette in evidenza il sostengo alla domanda. Un sostegno che, però, è pari a quello del doping per un atleta. Le prestazioni non migliorano, se non temporaneamente, danneggiando il fisico e ponendo l’atleta stesso di fronte a una scelta: continuare a doparsi, per di più a dosi crescenti, oppure avere un tracollo delle prestazioni. Il problema è che, se quell’atleta sceglie la prima opzione, prima o poi collassa. Di conseguenza, anche a prescindere dagli inevitabili conseguenze redistributive, non credo che l’effetto dopante temporaneo delle politiche monetarie espansive (Qe compreso) sul Pil sia da considerarsi un vantaggio. Soprattutto, non è un pasto gratis, come spesso chi invoca l’aumento della quantità di moneta vorrebbe far credere.
Tra gli svantaggi vengono indicate operazioni finanziarie (carry trades) che mirano a ottenere un margine tra il basso costo del debito (dovuto al Qe) e l’investimento in attività più o meno rischiose. Queste sarebbero ritenute “operazioni di scarsa utilità sociale”. Un concetto privo di senso, dato che non esiste l’utilità sociale, bensì solo l’utilità individuale, per di più non quantificabile, essendo soggettiva. Il punto vero è che quelle operazioni possono essere fatte da chi entra per primo in possesso del denaro fresco di creazione da parte della banca centrale. E’ questo effetto redistributivo che dovrebbe essere messo in discussione, senza fare opinabili riferimenti alla inesistente utilità sociale.
Che fare allora del Qe? Galimberti, citando le conclusioni dello studio che commenta, sostiene che “quando c’è ragione di ritenere che gli effetti sulla domanda ci siano, il Qe dovrebbe essere particolarmente aggressivo, così da far prosciugare dalla domanda quei fondi che altrimenti sarebbero finiti nei ‘carry trade’.” Ora, posto che gli effetti sulla domanda, come detto, sono in ogni caso redistributivi, dopanti e temporanei, come si fa ex ante ad avere ragione di ritenere che questi prevarranno sui carry trades? Sarebbe necessario che i banchieri centrali fossero onniscienti e avessero una sorta di sfera di cristallo. Cosa che i keynesiani possono anche credere o voler far credere agli altri, ma che, evidentemente, non corrisponde a verità.
Prova ne sia che non vi è un solo caso di Qe in cui a prevalere non siano stati gli effetti puramente finanziari. Ma si può stare certi che una scusa per giustificare Qe a ripetizione verrà sempre trovata, magari con quel carico di matematica che serve a dare una apparenza di scientificità a un’attività vecchia come il mondo: svilire il potere d’acquisto della moneta redistribuendo la ricchezza a favore di chi ottiene quella di nuova creazione.