Noah Smith ha pensato bene di sostenere quanto segue: “Ma l’impatto dello Stato sulla tecnologia non può essere sempre misurato allo stesso modo con cui si misura il rendimento dell’investimento di un fondo di venture capital. Se fosse così, sarebbe ottimale lasciare che a investire fosse solo il settore privato. Lo Stato è necessario quando ci sono effetti che vanno oltre il semplice ritorno dell’investimento… la funzione più importante dello Stato è nell’area in cui ci sono le maggiori esternalità positive: la ricerca… Quindi penso che sia ora per una spinta dello Stato per migliorare la tecnologia di stoccaggio dell’energia”.
Quando si è convinti che una cosa sia giusta e meritevole, vi sono due modi per far sì che accada: impegnarsi in prima persona e cercare di convincere altri a sostenere i propri sforzi; oppure invocare l’intervento dello Stato.
Questa seconda alternativa è sicuramente più comoda, e non perché non vi siano soggetti privati che “vanno oltre il semplice ritorno dell’investimento”, bensì perché un filantropo, se vuole rimanere tale, non può permettersi di sprecare a lungo le risorse a sua disposizione (magari accumulate con sacrificio personale). Non si può dire la stessa cosa dei politici al governo.
Il forte legame tra gli intellettuali e i governi non è affatto casuale: i primi forniscono ai secondi legittimazione presso il pubblico, ricevendo in cambio carriere al riparo dalla concorrenza e dal dover soddisfare le esigenze dei consumatori. Murray Rothbard ha scritto pagine memorabili (anche) su questo argomento.
Noah Smith (pur vivendo negli Stati Uniti, che nonostante tutto lasciano all’iniziativa privata, anche in campo universitario, molto più spazio che da questa parte dell’Atlantico) conferma la regola dell’intellettuale accademico medio: è convinto che sarebbe necessario “migliorare la tecnologia di stoccaggio dell’energia” (e non ho nulla da dire in merito) e, guarda caso, ritiene che la ricerca debba essere finanziata dallo Stato. Un investitore che lui definisce “paziente”. Chiaramente la “pazienza” è agevolata dal non rischiare risorse proprie, bensì quelle dei cosiddetti “contribuenti”. Ai quali, se le cose dovessero andare male, gli intellettuali accademici forniranno comunque rassicurazioni: i loro soldi non sono stati sprecati.
Alla favola dello Stato come “investitore paziente” io non ho mai creduto, e i tentativi di fornire evidenza empirica a favore di quella tesi funzionano solo se si selezionano molto accuratamente le eccezioni alla regola. E’ umanamente comprensibile l’approccio alla questione degli Smith di questo mondo: cercano di ottenere il risultato che vogliono minimizzando lo sforzo. In fin dei conti, però, ogni parassita lo fa.