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Viva l’abolizione della proprietà privata: storia di un’utopia rovinosa

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SOCIALISMO ILLUSTRATOdi GUGLIELMO PIOMBINI

«Le leggi che rendono sicura la proprietà rappresentano il più nobile trionfo dell’umanità su se stessa. È questo diritto che ha vinto la naturale avversione al lavoro e dato all’uomo il dominio sulla terra; che ha posto fine alla vita migratoria delle nazioni; che ha generato l’amore per il proprio paese e la cura per la posterità»: quando all’inizio dell’Ottocento il filosofo inglese Jeremy Bentham scriveva queste parole, non faceva altro che esprimere la generale riverenza verso la proprietà della società del suo tempo.

Agli occhi degli europei la proprietà privata era “sacra” perché rientrava nell’ordine naturale delle cose, perché era stata consacrata da usi e consuetudini aventi millenni di storia, e perché aveva benedetto il vecchio continente portando ricchezza e prosperità. I viaggiatori dotati di maggior spirito di osservazione si erano infatti accorti da tempo che l’elemento cruciale che distingueva la libera, pluricentrica e creativa Europa dalle altre stagnanti civiltà “asiatiche” era la sicurezza della proprietà, perché nei dispotici imperi orientali (assiro-babilonese, egizio, cinese, indiano, persiano, tardo-romano, arabo-ottomano, incas, azteco) l’autorità centrale riduceva i sudditi alla assoluta soggezione controllando tutta la terra e concentrando nelle proprie mani ogni risorsa.

I primi fallimenti socialisti

ProudonNei decenni successivi, tuttavia, la proprietà privata iniziò a perdere la sua aurea sacrale e ad essere contestata da una schiera di intellettuali socialisti, che spesso riprendevano antiche suggestioni collettiviste risalenti almeno a Platone. Uno dei più agguerriti era Pierre-Joseph Proudhon, autore del famoso motto “la proprietà è un furto!”. Lo slogan ebbe successo, ma si trattava probabilmente di un paradosso, dato che il concetto di furto presuppone proprio il concetto di proprietà che si vuole negare. Proudhon era sicuramente un confusionario, ma non certo un uomo privo di onestà intellettuale, tanto che nella sua opera postuma La teoria della proprietà cambiò completamente idea, individuando nella proprietà l’unico baluardo contro il potere altrimenti irresistibile dello Stato

Nella prima metà dell’Ottocento vi furono però anche degli autori socialisti che non si accontentarono di scrivere saggi contro la proprietà privata, ma che cercarono di mettere in pratica le proprie idee. Nel 1833 sorse il primo dei falansteri, le perfette comunità socialiste ideate da Charles Fourier nei più precisi dettagli (dovevano contenere esattamente 1620 persone, non una di più non una di meno), che ebbero breve durata per la loro palese bizzarria. Più prolungata fu la sperimentazione promossa dal socialista inglese Robert Owen, grazie alle risorse finanziarie di cui disponeva. Owen, infatti, aveva fatto fortuna come industriale tessile grazie alle opportunità offerte da una società basata sulla proprietà privata, ma perse tutta la sua ricchezza nel tentativo di edificare una società senza questo istituto. La comunità socialista più nota, New Harmony, da lui fondata negli Stati Uniti nel 1825, rimase in vita solo fino al 1827, mentre la maggior parte delle altre comunità owenite in Inghilterra e USA fallirono in tempi ancor più brevi.

I motivi dell’insuccesso erano sempre gli stessi: dato che in queste comunità tutti venivano remunerati allo stesso modo indipendentemente dal lavoro svolto, i membri più efficienti e operosi si stancavano ben presto di dover faticare a vantaggio dei furbi e dei fannulloni. Dopo poco chiedevano indietro la propria quota e lasciavano la comunità, che, popolata solo elementi parassitari e inadatti al lavoro, tirava avanti producendo pochissimo fino a quando il munifico fondatore era disposto a mantenerla di tasca sua. Malgrado i continui fallimenti, Owen rimase testardamente convinto fino all’ultimo della necessità di abolire la proprietà privata. Gli si deve però riconoscere il merito, più unico che raro tra i teorici del socialismo, di aver cercato di instaurare il socialismo a proprie spese, e non con i soldi altrui.

I problemi delle comunità socialiste volontarie di Owen o Fourier erano ben noti a Karl Marx e Friedrich Engels, che li deridevano e chiamavano sprezzantemente “socialisti utopisti”. Marx ed Engels, come risulta da un loro scambio epistolare, avevano anche individuato la causa del dispotismo asiatico nella “assenza della proprietà privata”, che è “la chiave di tutto l’Oriente”. Pur sapendo tutto questo non esitarono a scrivere, nel Manifesto del partito comunista uscito nel 1848, che «la teoria dei comunisti può essere riassunta in una sola frase: abolizione della proprietà privata». Poiché giudicavano impossibile il raggiungimento di questo obiettivo per via pacifica, i due padri fondatori del “socialismo scientifico” auspicavano il ricorso alla coercizione e alla decisa concentrazione del potere nelle mani dello Stato.

La strada diretta verso il Gulag

gulagSeguendo queste prescrizioni, i bolscevichi che presero il potere in Russia dopo il 1917 si avventurarono nell’abolizione per decreto della proprietà privata senza aver la minima idea delle immense difficoltà che sarebbero insorte. Tra repressioni, terrore di massa, caos economico e crollo della produzione, il “comunismo di guerra” degli anni di Lenin e la collettivizzazione delle terre voluta da Stalin costarono la vita a 15-20 venti milioni di contadini. Il folle esperimento sarebbe stato imitato nel corso del XX secolo da altri epigoni in tutto il mondo, provocando analoghe catastrofi umane e materiali: la politica di comunismo integrale delle campagne inaugurata da Mao alla fine degli anni Cinquanta con il pomposo nome di “Grande Balzo in Avanti” provocò la più terribile carestia della storia, che si tradusse in un salto nella tomba per circa 30 milioni di cinesi; milioni di morti dovuti alle repressioni e alle carestie accompagnarono la collettivizzazione delle campagne anche in Corea del Nord, nella Cambogia dei khmer rossi e nell’Etiopia di Menghistu.

Il problema fondamentale è che il concetto di “proprietà pubblica” o “collettiva” nasconde un imbroglio semantico, dato che “pubblico” e “collettivo” sono concetti astratti, o metafore, e non esistono in realtà. Solo gli individui vivono, pensano, agiscono, possiedono e hanno bisogni. Dato che in ultima analisi sono sempre gli individui singoli ad appropriarsi di qualcosa, diceva l’economista libertarian Murray N. Rothbard, la proprietà pubblica non esiste: tutta la proprietà è sempre e solo privata. Aldilà delle denominazioni formali, scarsamente rilevanti, proprietario di un bene è colui che decide sui modi di utilizzazione e che ne fa propri i frutti.

I beni in “proprietà pubblica” sono allora, di fatto, in proprietà privata della classe politico-burocratica, che decide come usarli e che si appropria dei benefici della loro amministrazione sotto forma di stipendi, poltrone, prebende. Nei regimi socialisti, infatti, gli abitanti non erano proprietari di tutto, ma proprietari di niente: i veri proprietari delle ricchezze del paese erano i membri della nomenklatura. Anche nei nostri sistemi ad economia mista, il fatto che nessuno possa vendere la propria “quota” delle ferrovie statali, delle aziende sanitarie o della scuola pubblica, né decidere come usarla, dimostra che in verità il cittadino è un proprietario nominale, con il solo dovere di pagare i debiti di gestione accumulati dai membri della classe politico-burocratica, che sono i reali proprietari della cosa pubblica.

In quest’ottica di conflitto tra classi politiche e classi produttive private si spiegano le guerre sanguinose che i comunisti, ogni volta che hanno preso il potere, hanno scatenato contro i contadini, i quali nei paesi non industrializzati costituiscono la stragrande maggioranza dei ceti produttivi. L’obiettivo della “collettivizzazione” era quello di sottrarre la proprietà delle ricchezze ai produttori e ai legittimi proprietari, per trasferirla alla “nuova classe” parassitaria dei rivoluzionari di professione. 

Proprietà privata, sinonimo di civiltà

Mises 4Se l’abolizione forzosa della proprietà privata ha portato direttamente al totalitarismo e al gulag, scarsa fortuna hanno avuto anche i tentativi novecenteschi di socialismo volontario. I kibbutz israeliani, a lungo magnificati come esempi di socialismo funzionante, sono ormai entrati in una crisi irreparabile. Il filosofo Robert Nozick ha detto che queste comuni rappresentano “il test all’acido” sulla desiderabilità del socialismo: ebbene, pur nelle condizioni più favorevoli, mai oltre il 10 percento della popolazione israeliana ha scelto di vivere nel collettivismo dei kibbutz, e attualmente non supera il 3 percento. I kibbutz hanno accumulato debiti per miliardi di dollari, e oggi sopravvivono quasi esclusivamente grazie al sovvenzionamento statale. Questo fatto invalida l’esperimento, dato che in pratica l’esistenza dei kibbutz dipende dalle risorse prodotte nel settore privato circostante.

Oggi i problemi legati al mancato rispetto dei diritti di proprietà continuano ad essere drammaticamente evidenti nel degrado ecologico che caratterizza tutti i beni collettivi privi di proprietari (mari, laghi, fiumi, spiagge, boschi, foreste, animali allo stato selvaggio); così come nel sottosviluppo economico in cui si sono arenati i paesi del terzo mondo, come spiega Hernando de Soto nel libro Il mistero del capitale. Se l’esperienza storica potesse insegnarci qualcosa, ha scritto il grande economista austriaco Ludwig von Mises, sarebbe che la proprietà privata è inestricabilmente connessa alla civiltà.

Purtroppo sono ancora molti quelli che rifiutano questa evidenza, a partire dal papa Francesco I, che nella sua enciclica Laudato si’, allontanandosi da una tradizione cattolica che annovera San Tommaso, Leone XIII e Giovanni Paolo II, ha messo sotto accusa la proprietà privata. La tradizione cristiana, scrive il Papa, «non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile» quel diritto ma «ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata». Eppure la storia ci insegna che l’abolizione della proprietà privata è stata un’utopia rovinosa, e che ogni tentativo collettivista, da Fourier a Stalin, è finito in farsa o in tragedia. 

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10 COMMENTS

  1. Tra i commenti c’è anche qualche sciocchezza. C’è chi ribadisce che la proprietà sarebbe un furto senza indicare perché o chi commetterebbe il furto e ai danni di chi. Si sostiene che sia stata l’origine delle più grandi tragedie senza citare quali, quando solo i ciechi non vedono la grande vera tragedia provocata dall’applicazione della sua abolizione nelle economie collettivizzate. Il principale ostacolo allo sviluppo della specie, è stato proprio l’atteggiamento ostile alla proprietà che ha invece costituito il principio fondamentale per la conservazione di una specie che senza il diritto proprietario non esisterebbe più da tempo. Le religioni sono state spesso inventate per contrastare una realtà fortemente laica come la proprietà, altro che puntello inventato da non si sa chi. I dispotismi orientali erano basati sulla divinizzazione dei sovrani. Resta un mistero capire quali siano le false e irrazionali teorie che i filosofi avrebbero inventato a favore della proprietà. Quali filosofi, poi? Platone? Plotino? Marsilio Ficino? Hegel? Marx ed Engels? Marcuse o Althusser? Sartre? Ecco una bella serie di esempi empiricamente falsi e irrazionali, visto che le loro idee l’applicazione l’hanno avuta; contrariamente all’ipocrita vulgata degli stolti che affermano non essere stato vero comunismo quello di tutte le realtà che così si sono denominate. La scienza, quella vera, non dà minimamente segni di avversione alla proprietà. Quella finta e pseudovirologica dei nostri giorni, forse sì. Ma è proprio quel mondo a essere costellato da privilegiati che ostacolano la ricerca autentica: nel caso dell’attuale terrorismo mediatico sulle patologie, ciò avviene anche attraverso il mancato uso dei raffronti statistici e delle autopsie. Tutto ciò a opera di coloro che sono al servizio dei potenti e dei nemici della proprietà per ottenere statali prebende, consenso politico e artificiale visibilità. Quella tecnologia che tanto si vuole esaltare, dimenticando certi precedenti luddistici, esiste grazie all’esistenza della proprietà e del suo sia pur parziale utilizzo economico. Il semplice possesso d’uso non potrà mai essere foriero di benessere economico perché la prospettiva umana è quella di poter lasciare ai propri eredi ciò che si possiede. Il possesso di ciò che si è guadagnato con il proprio lavoro non è autentico se ha una prospettiva limitata temporalmente. Senza considerare che questi strumenti di possesso sono stati creati grazie all’istituto della proprietà. Se l’imprenditore mi consegna una vettura di servizio per svolgere il mio lavoro, è chiaro che quella vettura non sarà un giorno di mio figlio. Ma del figlio di chi me l’ha fornita sì. Ed è stata costruita e acquistata grazie all’esistenza della proprietà. La mia abitazione, se non è una alloggio di servizio, è invece giusto che vada un giorno a mio figlio e non al figlio del mio datore di lavoro. Non esistono persone che accumulano beni che non usano; anche se l’uso non è immediato e personale, il suo scopo futuro è quello del trasferimento ai propri eredi di un risparmio. Che strano, poi. Di tutte quelle forme di lavoro basate sulla cosiddetta “nuova economia” avevamo sentito le cose peggiori in quanto inventate dal capitalismo. Ora le si vogliono gabbare come sostitute della proprietà solo perché il locale dove lavoro non è mio e pago l’affitto a qualcuno, quindi non posso trasferire a qualcuno quella proprietà. Ma a contratto scaduto non sarò io a traferire il possesso d’uso, sarò il proprietario del locale. Proprietario, quindi, non ente astratto formatosi senza costruzione giuridica. In mancanza dei proprietari non esisterebbero neanche gli usi e i loro eventuali trasferimenti. Dovrebbe essere un concetto logico ma i nemici della proprietà non hanno mai masticato logica. Preferiscono l’onirismo da “svegli” (si fa per dire), il peggior nemico della scienza autentica. Quella di Galileo, non quella di chi non vuol vedere nel telescopio altrimenti scopre la proprietà privata; altro esempio, quest’ultimo, di come non sia vero che i proprietaristi abbiano bisogno delle religioni per affermare le loro tesi. La dottrina cristiana non ha mai riconosciuto inviolabile la proprietà? Può darsi, non so se sia così; a deciderlo siano gli esegeti. Se la risposta sarà affermativa, vorrà dire che in questo campo tale dottrina è rimasta indietro e questo spiega l’esistenza nel passato di uno stato pontificio. Così come spiega l’esistenza di concordati con le autorità civili e la supina passività ad esse recentemente dimostrata nella rinuncia al libero esercizio del culto in nome di una presunta salvaguardia della salute fisica. Quella di Bertinotti non è certo una svolta liberale. I cortigiani usano quel termine per definire il contrario del liberalismo e Bertinotti, in stile neolingua orwelliana, non è da meno. Il primo nemico del cattolicesimo liberale è proprio l’antirosminiano e antisturziano Bergoglio. Le religioni ultramistiche e ultratrametafisiche, come il marxismo e il dossettianesimo, sono state inventate allo scopo di contrastare l’idea di proprietà e non certo per valorizzarne la sua difesa. Basterebbe studiare la storia ma agli intellettuali tale esercizio mentale non serve.

  2. Su chè la proprietà pubblica sia proprietà privata della nomenklatura non ci piove. Sempre quando questi se ne impossessano si guardano bene dal dirlo ed affermano di farlo per il bene generale. Papa Francesco è uno di questi, cosa vi aspettate.

  3. La proprietà privata è un furto, è stata l’origine e la causa di tutte le più grandi tragedie ed ha costituito il principale ostacolo allo sviluppo della specie umana, per la sua difesa si sono inventate le religioni, i filosofi l’hanno puntellata di false e irrazionali teorie. La scienza, sempre avversata dai privilegiati e dai sapienti al loro servizio, sembra essere quello che ci potrà liberare da questo millenario errore. Il software open-source, la share economy, il leasing, ecc. marciano in questa direzione, l’individuo avrà il possesso d’uso dei beni che gli servono per vivere possesso d’uso che si sarà guadagnato con il suo lavoro, non accumulerà beni che non usa, trasferirà ad altri solo il possesso d’uso e non la proprietà.

  4. Però , in Italia , ci sono state delle importanti correzioni.
    Secondo il terro-catto-marxismo “la proprietà è un furto” solo se ci si riferisce agli “altri”.

  5. Quando in una costituzione si subordina la proprietà privata a scopi sociali, significa che la proprietà privata è una riserva di caccia per lo stato.
    In italia è così.
    Rousseau ha qualche colpa in merito.

  6. Condivido al 100% l’articolo di Guglielmo Piombini che riassume in poche cartelle una questione storica e dottrinale nata oltre due mila anni fa (se si tiene conto delle idee comuniste già presenti nel pensiero classico greco). Mi preme però far presente che a decidere la questione della legittimità o meno, dal punto di vista libertario, dell’abolizione della proprietà privata, non sono gli aspetti economici, ma quelli propri della libertà degli individui.
    Mentre il comunismo marxista e sovietico (cioè non come racconto utopistico, ma come partito e regime), impone l’abolizione della proprietà privata a tutti e quindi toglie a tutti la libertà, il sistema capitalistico di mercato non la toglie, ma permette, a chi volesse vivere da comunista, di farlo, a proprie spese (in Italia, ad esempio, esiste da decenni la comunità di Nomadelfia che pratica un comunismo di ispirazione evangelica, in cui i circa mille membri che la compongono rinunciano ad ogni proprietà privata).
    I libertari permettono ai comunisti di vivere da comunisti, se vogliono, associandosi e organizzandosi secondo le loro scelte. Mentre i comunisti non permettono ai libertari altrettanta libertà.
    In ciò sta soprattutto la superiorità della filosofia libertaria. Prima ancora del maggiore ed evidente successo del capitalismo, della proprietà privata e del mercato, sul piano economico e di sviluppo del benessere, rispetto alle società comuniste.

    • condivido appieno quanto ha scritto Luciano Aguzzi.E ho dato per scontato il fatto che una societa’ basata sui diritti di propieta’ e’ una societa’ libera. Tuttavia alla fine non si puo’ eludere il fatto che una societa’ che abolisce i diritti di proprieta’ oltre al fatto fondamentale di eliminare la liberta’ delle persone , ha sempre come effetto collaterale quello di provocare sempre la poverta’.

  7. E’ sintomatico del grado di confusione che regna sull’argomento, la “conversione” liberale di fausto Bertinotti, il quale indica Papa Francesco come epigono della nuova sua svolta liberale!!!

  8. Piombini e’ come sempre eccellente per rendere semplici problemi difficili.
    In un mondo di scarsità eliminare la proprieta’ privata ha avuto nella storia sempre l’esito di produrre ulteriore scarsità di beni e servizi. Purtroppo Papa Francesco non riesce a capire che senza proprieta’ privata il mondo
    e’ destinato ad andare incontro alla fame. Quella stessa fame che Papa francesco cerca di combattere e che non e’ possibile vincere senza la proprieta’ privata.

  9. Come sempre Piombini illustra chiaramente e con intelligenza i misfatti prodotti dal rifiuto della proprietà privata,come valore morale.
    La proprietà é un dono divino;pare che papa Francesco abbia qualche dubbio.

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