di GILBERTO ONETO
Gianfranco Miglio non è mai stato tanto ricordato, nominato, tirato in ballo come in questo inizio 2012. Ogni giorno spunta fuori qualche sedicente “allievo” o “erede” che cerca di proporsi come continuatore e perpetuatore del suo pensiero. Tutto inutile e anche un po’ patetico: Miglio è unico e inimitabile, nessuno può prenderne il posto o – tanto meno – ereditarne l’intuito o il carisma. Miglio si può rimpiangere, ripubblicare e studiare. Si devono fare conoscere e diffondere le idee e le intuizioni. Si può e si deve anche cercare di attualizzarne il pensiero applicando alla situazione attuale le soluzioni che aveva studiato e proposto.
Si può legittimamente anche tentare di immaginare cosa avrebbe pensato dell’odierna melassa politica italiana e dei suoi maldestri figuranti. Indubbiamente avrebbe usato lo stesso sarcasmo nel cucinare i giudizi a suo tempo espressi per la classe politica di fine Novecento, che è in parte la stessa di oggi: al potere ci sono ancora molti degli gli stessi figuri e i loro manutengoli, e anche le poche facce “nuove” che ci sono in giro per il palazzo sembrano i mal riusciti ritratti (o caricature) dei vecchi socialisti, democristiani o comunisti che hanno impestato la scena italiana per decenni. E alcuni sono addirittura – come detto – ancora gli stessi, sotto qualche riportino, lifting o cambio di sigla.
Possiamo immaginare che avrebbe fatto acute e irriguardose distinzioni fra la sua idea di “decisore” e i capataz – Berlusconi e Monti – che si sono trovati fra le mani un potere straordinario, una possibilità di scelte di governo come forse non era mai successo prima in un sistema formalmente democratico e pluralista, senza saperlo proficuamente impiegare. Avrebbe stigmatizzato la differenza di valore fra chi utilizza il potere per fare progetti concreti, per costruire un sistema in grado di guidare con intelligenza il percorso politico di una comunità, e chi – come invece avviene – non riesce a uscire da un ridicolo ruolo di autocrate del nulla, di autoritario ma impotente gestore di catastrofi e iniquità. Avrebbe sicuramente ridacchiato sulla differenza che corre fra un vero “capo” e un apprendista stregone, fra chi trae forza e legittimazione dalla volontà popolare e chi invece si arrocca su trucchi di contabilità elettorale o – come sta succedendo – è sostenuto dai viscidi tentacoli di grandi centri di potere che nulla hanno di identitario, democratico o morale.
L’idea che Miglio ha sempre sostenuto con coerenza era quella di sussidiarietà democratica, di potere espresso dalla comunità a partire dalle aggregazioni più basse, dalle assemblee locali, dalla straordinaria vitalità e moralità che promana da decisioni prese dalla gente, in libertà e totale assunzione di responsabilità. Miglio ha sempre sognato questa parte di mondo come una grande Svizzera, come un paese di piccole e medie comunità, di enclavi, di relazioni contrattuali liberamente sottoscritte. La sua carta d’Europa somigliava allo straordinario patchwork di autonomie del Medio Evo cristiano e alla sua complessa rete di relazioni, franchigie, accordi, patti di aggregazione: un disegno reso splendente da quelli che un altro grande genio solitario – Solgenitsin – chiamava “i mille colori delle libertà”.
Oggi invece Miglio si dovrebbe confrontare con uno Stato che delira di “unità e indivisibilità”, che organizza grottesche celebrazioni per i 150 anni dalla costruzione di un recinto che racchiude comunità, spezza e calpesta identità, sopprime ogni afflato di libertà popolare. Lui aveva già liquidato l’idea stessa di unità italiana come “finzione verbale e auspicio dell’impossibile”. Oggi avrebbe di fronte a sé anche un altro Leviatano, ancora più grigio e oppressivo: lo Stato europeo che non cerca di essere una grande Svizzera, frutto del libero incontro delle volontà dei popoli, ma una grande Italia, colma di prefetti, imposizioni e imposte, sotto l’avvilente coltre grigia del livellamento centralista.
Di questo si occuperebbe sicuramente oggi Gianfranco Miglio: di combattere le due teste – italiana ed europea – dello stesso mostro, questa dittatura del grande a danno delle libertà del piccolo. Ci manca la sua genialità, abbiamo però il suo esempio e insegnamento. Diamoci da fare.