di ROMANO BRACALINI
Un avviso ponderabilissimo e pieno di funesti presagi si ebbe quando il re galantuomo, il Vittorio Emanuele II, più dedito alle contadinelle che agli affari di stato, entrò a Roma dopo che i bersaglieri ne avevano sfondato le mura a Porta Pia. Era l’ottobre 1870 e il Tevere aveva dato di fuori e la città allagata, come quando fuori piove, ricevette il re con gli abiti fradici e il fango che inzaccherava le strade. Elegante non lo è mai stata, ma dopo l’ennesima alluvione, - perché nessuno aveva pensato a costruire i parapetti del fiume limaccioso e giallo -, aveva l’aspetto di un accampamento fenicio e le donne già sfatte alle finestre con i bigodini a guardare il mesto corteo reale che arrancava. Toccata e fuga. Il re aveva notato che Roma puzzava di erbe cotte e fossero state solo le erbe! Fortuna che non c’era ancora la metropolitana che in questi giorni è chiusa per la piena.
Che Roma assomigliasse a Bisanzio e che non vi fosse tradizione di
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