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Schiavi fiscali, i nostri antenati erano più liberi di noi

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Schiavidi ENZO TRENTIN

Nei giorni scorsi l’ambiente indipendentista veneto si è indignato per un articoletto apparso sul quotidiano veronese l’«Arena», a firma G.B. che ha una sua rubrichetta fissa, e nella quale svillaneggiava gli indipendentisti definendoli ignoranti, perché non sanno che l’indipendenza è impossibile e illegale, e definendo la Repubblica di Venezia, alla quale i predetti indipendentisti aspirano, come una repubblica di puttane, e di spie come Giacomo Casanova. Alcuni hanno già inviato lettere al giornale per contestare queste gratuite affermazioni. Noi qui riprenderemo la questione, ma prima faremo una digressione o Excursus che dir si voglia.

In primo luogo parleremo di puttane. La società rinascimentale di Venezia riconosceva due diversi tipi di cortigiane: la cortigiana onesta, ossia la cortigiana intellettuale, e la cortigiana di lume (più simile alle moderne prostitute), una cortigiana dei ceti bassi, che viveva e praticava il mestiere vicino al Ponte di Rialto.

Veronica Franco fu probabilmente l’esempio più celebre di cortigiana onesta, anche se, nella Venezia rinascimentale, non fu l’unica intellettuale a vantare una cultura raffinata ed a esprimere numerosi talenti in ambito letterario e artistico. Figlia di una cortigiana onesta, Veronica in giovane età fu iniziata a quest’arte dalla madre e, una volta che ebbe imparato a utilizzare le proprie doti naturali, riuscì a contrarre un matrimonio finanziariamente favorevole. Si sposò giovanissima con un ricco medico, ma il matrimonio finì male. Per mantenersi, diventò una cortigiana d’alto rango. Fu inserita nel Catalogo de tutte le principal et più honorate cortigiane di Venetia (pubblicato intorno al 1565), elenco che forniva il nome, l’indirizzo e le tariffe delle cortigiane più in vista della città, secondo il quale un bacio di questa cortigiana costava 5 o sei scudi, il servizio completo 50 scudi. Grazie alle sue amicizie con uomini facoltosi ed esponenti di spicco dell’epoca, divenne ben presto molto conosciuta. Ebbe persino una breve liaison con il re Enrico III di Francia, che consentì alla repubblica d’affrontare la guerra contro i turchi con 100 navi in più offerte tale alleato. Chi ha desiderio d’approfondire, qui può godersi gratuitamente un bellissimo film a lei dedicato, e nel quale si vede come anche la Santa Inquisizione, a Venezia, non aveva mano libera.

«Quella di Veronica Franco», scrive Fabio Vacchi, «è anzitutto una lezione di dignità. Come altre donne senza mezzi del suo tempo, fu istradata dalla madre a un mestiere terribile, che praticò senza rinunciare al rispetto di se stessa. “La vergogna”, diceva, “non è nella necessità di chi vende il suo corpo ma nell’alterigia di chi lo compra”. Visto che di lavoro si trattava, pagò le tasse come volevano le leggi della Serenissima, e dedicò il tempo libero a studiare, a scrivere quei versi che verranno lodati da Benedetto Croce».

Qualcuno potrebbe ravvisarvi una similitudine con Virginia Oldoini Contessa Castiglione [VEDI QUI]. Anch’essa ebbe una liaison con un regnante francese: Napoleone III che, mettendo a disposizione il suo esercito, favorì le guerre d’aggressione dei Savoia. Tuttavia nessun agiografo del Risorgimento la definisce puttana, e ci sfugge se qualcuno l’ha definita “Patriota”.

Sul discorso delle spie, ci soccorre un caso storicamente documentato che coinvolge proprio il quotidiano l’«Arena» in cui l’84enne giornalista su indicato scrive.

È un caso vistoso di commistione esplicita fra informazione, propaganda e controspionaggio che è stato reso pubblico dalle memorie postume: «Ventotto anni nel Servizio Informazioni Militari [Esercito], Trento, Museo Trentino del Risorgimento e della lotta per la Libertà, 1960, del generale Tullio Marchetti, già capo del servizio Informazioni Militari della I Armata.

L’«Arena», quotidiano governativo di Verona nato con l’annessione del Veneto all’Italia nel 1866, è fra quelli che maggiormente aumentano tiratura e diffusione negli anni di guerra 1915/18. Il principale artefice di questa travolgente espansione è proprio il generale Tullio Marchetti; l’uomo a cui fanno capo in quegli anni sia i servizi “I” (Informazioni) che i servizi «P» (Propaganda). È lui che ne rivela a questo modo gli assai concreti motivi: era un giornale infiltrato e manovrato dai servizi.

«Mi occorreva un quotidiano che non avesse radici palesi nel mondo militare, come i giornaletti di trincea, che, pur essendo dilettevoli, non potevano avere l’efficacia necessaria, in quanto il soldato li sapeva compilati dai comandi. Perciò esisteva un leggero alito di diffidenza, specie fra gli scettici ed i dubbiosi, e gli sfiduciati, che non mancavano mai.

I grandi giornali, come «il Corriere della Sera» ecc., per quanto animati da buona volontà per seguire le direttive generiche loro impartite in senso politico-patriottico, non potevamo metterli sotto la tutela di un ufficio militare, ed era cosa naturale.

Io, invece, volevo un quotidiano tutto mio, di vecchia data ed ormai diffuso fra la popolazione della mia zona, il quale facesse sue le mie idee, i miei fini, che seguisse senza deviazioni la linea di condotta che gli avrei indicata, in maniera di fare una propaganda vasta, soprattutto insospettata, non solo al fronte, ma anche nella plaga di guerra in mia giurisdizione.

Usciva a Verona il quotidiano del partito Liberale l’«Arena», di già assai diffuso in provincia, il quale contava 55 anni di vita.

Per una felice combinazione l’«Arena» cambiava di proprietario ed abbisognava di un nuovo direttore. Era in mano di una triade: il sig. Rossi, Presidente della società editrice, il senatore Luigi Dorigo e il deputato Luigi Messedaglia.

Spiegato loro il mio scopo, mi misi subito d’accordo, ed il giornale passò sotto la mia assoluta egida. Il nuovo Direttore fu il capitano Cenzato, il quale fu smobilitato e preso in forza dal Distretto Militare di Verona, rimanendo così libero dal servizio e nello stesso tempo sempre militare. Fu da me autorizzato a vestire in borghese. Il personale della tipografia dell’«Arena» fu tutto militarizzato, con l’accorgimento usato per il Cenzato, ed io ebbi carta bianca in tutto e per tutto.

Ogni giorno il Cenzato si abboccava con me prima che il foglio andasse alla stampa ed io, oltre alle direttive, gli fornivo anche notizie spicciole semibelliche, che interessavano il pubblico e che non potevano essere a conoscenza di altri giornali, perché di sola mia fonte, notiziole che mi affluivano dal fronte, dalle valli, dal mio servizio estero, ma tutte pubblicabili senza che mai ledessero la riservatezza del mio servizio.

Non per sdebitarmi, ma per contraccambiare le facilitazioni fattemi dai proprietari dell’«Arena», li aiutai in tutti i modi a superare le difficoltà materiali che ogni tanto sorgevano, specie nel periodo in cui la carta era contingentata, durante il quale il mio giornale poté avere delle forniture eccezionali di tale indispensabile merce, a prezzo ridotto. Viaggiai due volte in camion col Cenzato per andare a Toscolano sul Garda, alla cartiera Fedrigoni, per portar via d’urgenza la carta per il quotidiano, facendo una pressione verbale un po’ imperativa sul direttore dello stabilimento che nicchiava. Sta il fatto che la carta la ebbe ed in tal modo l’«Arena» non interruppe mai la propria pubblicazione. In contrapposto il giornale veniva ceduto ai comandi alle truppe a prezzo inferiore di quello che era venduto al pubblico, ma la quantità delle copie suppliva alla esiguità del guadagno.

Dalle normali diecimila copie, la tiratura con le forniture militari arrivò alle trentamila.

Il mio ufficio aiutò pure, e di molto, la diffusione de l’«Arena». Il giornale veniva preso alla tipografia a mezzo camions militari e portato in linea, ove giungeva alle truppe più vicine ancora in mattinata ed alle più distanti nel pomeriggio a mezzo uomini di collegamento, teleferiche ecc., cosa che nessun altro giornale poté mai ottenere, nemmeno il «Corriere della Sera».

Si ebbero piccoli episodi di rivalità con altri quotidiani, che si vedevano sacrificati dalle preferenze date all’«Arena» e ne sorsero lotte, che riuscirono vane, ché il mio giornale godeva di appoggi formidabili (non per nulla eravamo in guerra!).

La propaganda fu fatta in modo assai prudente ed ingegnoso, tale da non destare diffidenze, sia fra l’elemento militare che fra quello civile, e nessuno sospettò mai che il giornale era una emanazione diretta del mio ufficio e specialmente mia.

LAPIDE_VICENZAPerciò veniva letto assiduamente da tutti, senza prevenzioni di sorta e fu molto accetto ai combattenti.»

Giovanni Cenzato, commediografo in lingua veneta, giornalista alla «Perseveranza» e alla «Gazzetta di Venezia», dopo avere diretto l’«Arena» di Verona sino al 1922, passerà al «Corriere della Sera» come redattore viaggiante.

Facciamo ora un accenno a cos’era, tra l’altro, la Repubblica di Venezia. È di questi giorni la pubblicazione di un lavoro dell’avvocato bresciano Alan Sandonà, che essendo dottore in ricerca storica del diritto medievale, ed avendo un particolare interesse per le origini della sua famiglia proveniente da Caltrano (VI), ha dato recentemente alle stampe con l’egida del predetto Comune: «Leges et statuta communis Cartrani – Gli statuti di Caltrano 1543», con i tipi dell’Editrice Veneta.

Con il suo lavoro Alan Sandonà inquadra storicamente e giuridicamente quella realtà di cinque secoli fa, dove attraverso gli Statuti approvati dalla Commissione operante a Vicenza per conto della “Dominante”, gli ottocento caltranesi dell’epoca avevano deciso di darsi un logico bilanciamento fra diritti e doveri in funzione del bene comune e della sostenibilità economica. Gli Statuti rappresentavano un antidoto alle necessità di Venezia dovute ai conflitti in cui era impegnata. Tali Statuti erano importanti perché prevedevano l’elettività delle cariche da parte dell’assemblea cittadina, tutelavano il patrimonio comune tramite l’uso civico, sanzionavano i trasgressori, e fissavano multe e tasse.

Questo, si badi bene, non durante il ciclo di Venezia democratica (692-1297) in cui il doge veniva eletto dal popolo e il popolo stesso, raccolto in assemblea, approvava le leggi e deliberava la pace e la guerra, bensì quando l’aristocrazia si sostituisce alla democrazia, dichiarando (1297) la Serrata del Maggior Consiglio, il quale viene trasformato in un circolo esclusivo delle famiglie che sino a quel momento ne avevano fatto parte. Vale a dire durante il periodo di Venezia aristocratica in cui il doge era eletto dal Maggior Consiglio che legiferava e deliberava indipendentemente dal popolo.

Non ci pare che la situazione dell’odierna Italia sia paragonabile. Per esempio, Bordano (UD) il primo Comune di 800 abitanti che ci viene in mente, ha forse la possibilità di stabilire quante tasse inviare a Roma? Oppure è il Parlamento italiano che s’è fatto una legge per istituire la Tesoreria unica dello Stato dove vanno a finire – come in un siderale buco nero – tutte le tasse locali, per poi ottenere ristorni quasi mai adeguati alle necessità?

Concludendo: l’ultra ottuagenario giornalista veronese merita tutta la nostra compassione. Egli proviene da quella cultura prima cristiana e poi democristiana, che vedeva proprio nel suo concittadino e collega Guido Gonella uno dei costituenti del 1948, e che con l’avvento della televisione di Stato impose le braghe alle ballerine. Questo anziano signore scrive, ma non è informato che l’articolo 241 del Codice Penale (Codice Rocco, dal suo autore: fascista) è stato modificato su sollecitazione dell’UE, che fu a suo tempo zittita dalla Turchia. Infatti a quest’ultima si preclude l’entrata in UE (i turchi non sanno che vantaggi hanno a starne fuori) perché ha norme liberticide. La Turchia rispose: “E l’Italia?”. Di qui le modifiche, altrimenti… (Tsz!)

L’annebbiato ultraottuagenaio difende uno Stato dove il saccheggio ad opera dei partiti politici è sotto gli occhi di tutti, e ignora come la Repubblica di Venezia era prontissima a condannare chi si appropriava della cosiddetta res publica. Se il vegliardo sproloquiante andasse il Piazza dei Signori a Vicenza, vedrebbe ancora affissa alla Torre Bissara, una lapide dove è indicato al pubblico ludibrio un Camerlengo (Intendente alle finanze) che s’era indebitamente appropriato di soldi dello Stato. Se una tale usanza fosse in essere nel paese di Arlecchino e Pulcinella non basterebbero i muri.

Quanto al quotidino l’«Arena», oggi esso ha una diffusione certificata ADS, con media giornaliera di circa 36.000 copie cartacee, e di circa 1.350 copie via Internet. Vale a dire più o meno la diffusione che aveva un secolo fa. Gli indipendentisti veneti non hanno certo da scapicollarsi per farsi pubblicare qualcosa. Troppa fatica e poco vantaggio.

Quindi: indipendenza, indipendenza, perché costoro più che mai ci fanno rimpiangere la Repubblica del Leone.

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