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Scopo dell’economia è quello di considerare i problemi nel loro complesso

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di HENRY HAZLITT

Una nuova macchina per la raccolta del cotone, per quanto faccia diminuire per ognuno di noi il prezzo della biancheria e delle camicie e aumentare la ricchezza generale, getta sul lastrico migliala di operai che facevano la raccolta a mano. Un nuovo impianto di tessitura, capace di produrre un tessuto migliore e più rapidamente, renderà inutili migliaia di vecchie macchine, distruggendo in pari tempo una parte dei capitali investiti in queste attrez-zature e impoverendo chi le possiede. Lo sviluppo dell’energia atomica, per quanto possa diventare una fonte incomparabile di benessere per la intera umanità è molto temuto dai proprietari di miniere di carbone o di pozzi di petrolio.

Come non c’è progresso tecnico che non rischi di nuocere a qualcuno, cosi ogni mutamento dei gusti o delle abitudini — sia pure in meglio — può recar danno a qualche altro.

Lo sviluppo della temperanza costringerebbe migliala di caffè a chiudere bottega. Se il piacere del gioco diminuisse, i “croupiers” o gli informatori degli appassionati di corse di cavalli dovrebbero cercarsi un lavoro più redditizio. Se gli uomini diventassero casti la più antica professione del mondo cadrebbe in rovina.

Ma non soltanto gli uomini dediti al vizio soffrirebbero d’un improvviso miglioramento dei costumi; i più colpiti sarebbero quelli che si propongono tale miglioramento come missione. I predicatori non avrebbero più argomento per i loro sermoni, i riformatori sociali non avrebbero più nulla da riformare e i loro servigi non sarebbero più richiesti, ne ci sarebbero più collette, ne mezzi per far vivere questa gente. Se non ci fossero più criminali, avremmo bisogno di un minor numero di avvocati, di giudici, di vigili, di secondini, di fabbri e di agenti (salvo che per regolare la circolazione).

In un’economia in cui regna la divisione del lavoro, viene per forza un momento in cui, per soddisfare più efficacemente la necessità degli uomini, il progresso ne rovina alcuni, sia che avessero investito il loro danaro in industrie sorpassate, sia che si fossero perfezionati in sistemi ormai superati. Se il progresso fosse uniforme in tutti i settori del- l’economia questo antagonismo fra l’interesse individuale e collettivo — quand’anche sorgesse — non creerebbe alcun serio problema. Se nello stesso anno in cui aumenta il raccolto mondiale del grano, aumenta nella stessa proporzione anche il vino; se in eguai misura aumentano i raccolti delle arance e degli altri prodotti agricoli, se cresce la produttività industriale (e proporzionalmente diminuisce il costo unitario dei prodotti industriali) allora io, coltivatore di grano, non sarò danneggiato dall’aumento della produzione mondiale di grano. Il prezzo del grano può subire una flessione, e può subirla la somma che io potrò guadagnare con l’aumentato rendimento del mio podere, ma se io potrò, per l’aumento di produzione verificatosi in ogni settore, acquistare quel che mi occorre a minor prezzo, non avrò a dolermene.

E se i prezzi di tutti i beni diminuiranno nella stessa proporzione dei prezzi del mio grano, io guadagnerò esattamente in proporzione all’aumento complessivo del mio raccolto e tutti se ne avvantaggeranno, a seconda delle quantità delle merci e dei servizi acquistati.

Ma il progresso economico non s’è mai attuato, e non si attuerà mai, con una simile uniformità: esso si sviluppa talora in un settore della produzione, talora in un altro. Se l’offerta di una mercé, che io contribuisco a produrre, aumenta bruscamente, o se una scoperta o una invenzione rende d’un tratto inutile il mio lavoro, allora quel che il mondo viene a guadagnare causa una tragedia a me e al settore di produzione al quale appartengo.

Spesso non è il guadagno dovuto all’aumento della produzione o alla nuova scoperta a colpire anche l’osservatore più obbiettivo, ma la perdita che si concentra in un determinato settore. Che si abbia più caffè, e a più buon mercato, nessuno lo vede; quel che si nota è solo che i produttori di caffè, vendendo a questo prezzo più basso, non possono più guadagnarsi da vivere.

Ci si dimentica che la nuova macchina fabbrica più scarpe e a minor prezzo, ma si rileva che per causa sua uomini e donne rimangono senza lavoro. È giusto — e fondamentale per una più completa intelligenza del problema — che si riconosca la con- dizione di questa gente, che la si consideri con la maggior simpatia e che si cerchi di impiegare una parte dei benefici conseguiti col progresso tecnico ad aiutare coloro che ne pagano le conseguenze.

Ma la soluzione non può mai essere quella di ridurre artificiosamente l’offerta, quella di contrastare le nuove invenzioni o le scoperte, quella di continuare a pagar gente perché seguiti ad occupare un posto inutile.

E tuttavia il mondo continua a fare tutto ciò, istituendo i dazi doganali, distruggendo le macchine, bruciando i sacchi di caffè, moltiplicando le restrizioni. Ecco le conseguenze della stupida dottrina della ricchezza da conseguirsi con la rarefazione dei beni; dottrina che, purtroppo, ha, per qualche isolato gruppo di fabbricanti, una sua parte di verità, finché essi possono fabbricare in piccola quantità un prodotto che rimane scarso e trovare in abbondanza tutto quello di cui hanno bisogno.

Ma questa teoria è sempre falsa, se si tien conto dell’intera comunità economica; essa non può andar bene per tutti i settori dell’economia; non può essere generalizzata — e se lo si tentasse sarebbe il suicidio economico.

Ecco, dunque, la nostra lezione presentata nella formulazione più generale. Molte teorie che, considerate in rapporto ad un singolo settore sembrano buone, si dimostrano assurde quando si considerino le diverse necessità della collettività, sia dal punto di vista del consumatore che da quello del produttore.

Lo scopo dell’economia è proprio quello di considerare i problemi nel loro complesso e non soltanto per parti singole.

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