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Scozia, catalogna, veneto e sudtirolo: indipendenza alla ricerca di soluzioni

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scozia catalognadi REDAZIONE

Il seguente articolo, ad opera di Giacomo Dalla Valentina, è stato pubblicato su L’Alligatore, la rivista degli studenti di Giurisprudenza della Statale di Milano.

Se con riferimento all’esperienza storica e costituzionale occidentale si può parlare di una continua successione di “momenti” (assecondando fugacemente la tendenza del mondo giornalistico a ragionare per assiomi), è indubbio che quella a cui stiamo assistendo ora sia una stagione in cui i poteri centrali, intesi come espressione di una sovranità statale capace di riassumere e armonizzare le diversità all’interno del proprio spazio territoriale, siano in grande crisi. Una crisi per così di dire “salutare” nel momento in cui essa, con strumenti idonei e con la piena partecipazione democratica delle proprie componenti, apre la strada a quei processi di devolution che hanno lo scopo di superare l’elefantiaca macchinosità delle burocrazie centrali in favore di soluzioni connotate dai moduli del decentramento amministrativo1.

Questa attitudine a forme di federalismo o tutt’al più regionalismo –su cui non è opportuno dilungarsi in questa sede– trova infatti la sua giustificazione nel bisogno dei popoli e delle comunità politiche di unirsi e perseguire fini comuni, restando tuttavia separati per conservare le rispettive integrità. Però questo dato, certamente fisiologico della vita degli ordinamenti contemporanei, è potenzialmente idoneo a dar vita a tensioni politiche di notevole entità, soprattutto in quei contesti che storicamente presentano evidenti criticità nel rapporto tra autonomie e potere centrale. Su queste pagine si scriveva, ad esempio, del caso emblematico del referendum indetto nel 2014 in Crimea, riflettendo in particolar modo sulla figurabilità di un “diritto alla secessione”, tema annoso del diritto internazionale, e sulla legittimità delle modalità che hanno portato a tale risultato. Ma quello della Crimea, regione da sempre caratterizzata da forti tensioni indipendentiste acuite dall’azione militare da parte della Federazione russa, non è forse il miglior esempio cui riferirsi per analizzare tale fenomeno in un’ottica che finisca per ricomprendere, con un’astrazione forse posticcia ma sicuramente interessante, anche i nostri strumenti costituzionali.

È per questo che la disamina sotto un profilo giuridico-istituzionale di questa tendenza non può che partire dal confronto delle due esperienze a carattere secessionistico che più di tutte hanno dimostrato come nel contesto europeo (e ancora prima in quelli nazionali) vi sia la necessità di inquadrare uno strumento “idoneo” a condurre serenamente a tale epilogo: il caso della Scozia e quello della Catalogna, l’uno ormai giunto al termine con un referendum di esito negativo, l’altro nel pieno della sua contraddittorietà. Entrambi nondimeno forieri di un quesito sempre più attuale: esiste una “giusta via” che porti all’indipendenza da uno stato sovrano?

Il caso della Scozia

voto scoziaIl 19 settembre 2014 il quotidiano inglese The Times titolava a grandi caratteri in prima pagina “We stay together”, mentre un cubitale “It’s No!” campeggiava sulDaily Mirror: solo due tra i molti titoli entusiastici che nel giorno successivo alla consultazione popolare celebravano la netta vittoria dei “no”, e quindi il prevalere del frangente unionista su quella indipendentista. L’esito negativo –sul quale si era cominciato a dubitare solo a poca distanza dal referendum– si collocava però al termine di un lungo e articolato processo di natura costituzionale la cui conduzione coordinata da parte del governo scozzese e di quello del Regno Unito aveva fatto sì che nel giorno della scelta popolare, al di là delle tensioni per le ripercussioni politiche di un eventuale esito affermativo, non vi erano dubbi sulla legalità di quanto era stato effettuato.

Premessa necessaria nell’osservare tale processo è la circostanza per cui nel Regno Unito non vi è una costituzione in senso formale che contenga un’elencazione dei diritti dei cittadini e che sia dotata dell’attributo della rigidità: ciò nonostante quello inglese è uno dei più solidi ordinamenti liberal-democratici, ove la democrazia rappresentativa, la separazione dei poteri e le libertà civili sono tutelati e rispettati anche maggiormente rispetto agli altri ordinamenti occidentali. Le ragioni di questa apparente contraddizione non stanno (solo) nell’evidente propensione per i cittadini d’oltremanica al rispetto reciproco e agli antichi istituti democratici che lo contraddistinguono, ma anche e soprattutto nella considerazione alla stregua di un valore essenziale e non transigibile dellaConstitution, intesa come l’insieme di quelle norme, principalmente a carattere consuetudinario, che assumono così una valenza sostanziale. Ora, non è il luogo né per approfondire le ragioni dell’assenza di una costituzione formale, né per concentrarsi sulle rispettive norme: quello che interessa è il fatto che tra queste (il cui elemento comune è la necessità di regolare le attribuzioni delle istituzioni, le relazioni reciproche e i rapporti con la cittadinanza2) assume una notevole importanza il principio, più volte enunciato nella legislazione “costituzionale” del Regno, dell’unità del Regno Unito medesimo, faticosamente ottenuta e caposaldo della sua stabilità costituzionale. Un principio che viene marcato con forza anche nell’atto che avvia, nella storia recente, il processo di progressiva devoluzione di poteri e autonomia alla Scozia: lo Scotland Act 1998, pur costituendo un fondamentale riconoscimento alla peculiarità istituzionale, giuridica e amministrativa scozzese, conteneva infatti all’interno della Schedule 5 la chiara enunciazione per cui The Union of Scotland and England sarebbe rimasta all’interno dei cosiddetti reserved matters e perciò al di fuori della sfera legislativa del neonato Parlamento Scozzese.

Come quindi conciliare questo assoluto divieto, per quanto comprensibile, con le istanze secessioniste? Come superare, per una nazione che da secoli proclamava a gran voce la propria indipendenza, l’ostacolo mastodontico di una coscienza costituzionale sempre più aperta a riconoscere l’autonomia scozzese ma fermamente contraria a lasciare al Parlamento Scozzese libertà d’azione in materia di unità nazionale?

La fase politica (1998-2012)

Negli anni successivi allo Scotland Act 1998 la classe politica scozzese ha dimostrato di non voler rinunciare alla propria pretesa autonomista, e il primo atto che ne dà ragione è una bozza di riforma pubblicato a Edimburgo nel febbraio del 2010 sotto il nome di Scotland ’s Future: Draft Referendum (Scotland) Bill Consultation Paper. Un’articolata e completa proposta di quattro diversi quesiti referendari, dall’indipendenza “secca” dal Regno Unito alla semplice devoluzione di nuove e maggiori prerogative. Ma i tempi non sono ancora maturi, come dimostra l’esile maggioranza (50 voti su 129) che appoggia il progetto all’interno del Parlamento Scozzese.

Le elezioni del maggio 2011 assicurano però al Partito Nazionale Scozzese (SNP) di Alex Salmond, che aveva fatto dell’indipendenza uno dei principali temi della propria campagna elettorale, una maggioranza assoluta (69 voti) nel consesso legislativo scozzese. Si avvia così immediatamente un ampio processo di consultazioni sul futuro scozzese che mira a coinvolgere esponenti di ogni ramo della società per delineare il progetto di referendum potenzialmente più condiviso. Ancora una volta le consultazioni si concludono nel marzo 2012 con un documento,Scotland ’s Constitutional Future: a consultation on facilitating a legal, fair and decisive referendum on whether Scotland should leave the United Kingdom, che presenta però una caratteristica che lo differenzia radicalmente dal precedente: il testo non è frutto dell’attività unilaterale del governo scozzese ma comprende altresì la posizione del governo del Regno Unito, ben sintetizzabile dalla dichiarazione del primo ministro David Cameron che, riconoscendo la necessità di fare chiarezza una volta per tutte sulle pretese indipendentiste del governo scozzese, ha così affermato: “We owe the Scottish people something that is fair, legal and decisive so in the coming days we will be setting out clearly what the legal situation is.”

La fase giuridica (2012-2014)

Una soluzione legale, chiara e decisiva, quindi. Condivisa dalle parti in gioco e costituzionalmente idonea a risolvere la crisi. La risposta a questo enigma è evidente: un referendum che trovi la propria legittimazione in una delega ulteriore e specifica operata nei confronti del Parlamento Scozzese da quello del Regno Unito, unico organo  dotato della facoltà di legiferare in quei “reserved matters” di cui fa ovviamente parte l’unità del regno. Così avviene: nell’ottobre 2012 David Cameron e Alex Salmond si incontrano a Edimburgo per sottoscrivere quello che poi verrà definito come Edinburgh Agreement, punto d’arrivo dell’intensa attività di negoziazione tra i due governi e al contempo base giuridica per la regolamentazione nel dettaglio del tanto agognato referendum.

L’Agreement rappresenta lucidamente quello che è il cuore del processo appena descritto, è la quintessenza della collaborazione tra Regno Unito e Scozia su una materia da facili risvolti problematici. Nel siglare tale accordo infatti le due compagini governative hanno dimostrato di mirare, prima che al risultato in senso stretto, alla garanzia della sua legalità. Riconoscendo quindi la necessità che fosse la popolazione a doversi esprimere attraverso un referendum e impegnandosi a rispettarne l’eventuale risultato (in tal senso è memorabile l’inizio della dichiarazione di David Cameron: “The people of Scotland have spoken. It is a clear result”) quello che i due governi hanno in mente stipulando l’Edinburgh Agreement è la pressante esigenza che il referendum abbia una solida base legale.

Ottenuto l’accordo politico, le conseguenze giuridiche sono evidenti e pressoché immediate: sulla base dell’Agreement nel dicembre 2013 la Regina dà l’assenso reale ad un Order emanato sulla base della Section 30 dello Scotland Act 1998. La Section 30 (sotto la rubrica di Legislative competence: supplementary) prevede infatti la possibilità, unicamente da parte della Corona, di effettuare modifiche alleSchedules 4 e 5 dello stesso atto che considerasse necessarie.

L’Order, emesso così nel pieno dei poteri del governo centrale, introduce un’eccezione a quella Schedule 5 dello Scotland Act 1998 che riservava al Parlamento inglese l’autorità normativa in materia di unità del Regno, ammettendo quindi una delega nei confronti del Parlamento scozzese per l’indizione di un referendum per l’indipendenza che si sarebbe dovuto svolgere entro il 31 dicembre 2014.

Superati così gli stringenti vincoli costituzionali, avviata e condotta una procedura improntata sul principio della legalità e del costante dialogo tra le parti contrapposte, il Regno Unito e la Scozia arrivavano il 18 settembre ad un traguardo encomiabile. Assicurata la conformità della procedura alla Constitution e la conseguente stabilità del risultato si poteva concludere, con una certa e giustificata enfasi, che il resto sarebbe stato storia.

Il caso della Catalogna

catalogna2L’equilibrio istituzionale e la lineare procedura fondata sul dialogo che ha svolto un ruolo fondamentale nell’iter per il referendum scozzese non trova spazio, se non in situazioni del tutto marginali, nel complicato e controverso caso dell’indipendentismo catalano. Anche qui si ha un conflitto tra autonomia locale e potere centrale molto risalente, dove il primo atto giuridico interessante è lo Statuto di autonomia della Catalogna approvato dal Parlamento spagnolo nel settembre 1932 e successivamente abrogato durante la dittatura franchista, esasperatamente centrista e restia al riconoscimento delle culture periferiche.

Come si vedrà, lo Statuto costituisce lo strumento primario con cui la Generalitat de Catalunya ha rivendicato in numero sempre maggiore propri spazi di autonomia, agevolata anche dalla particolare modalità di ripartizione verticale del potere nell’ordinamento costituzionale spagnolo: nella Costituzione spagnola del 1978, infatti, si è creato un sistema di rapporti tra Stato e regioni non sulla base di un’espressa ripartizione di competenze ad opera della carta costituzionale (come nel nostro Titolo V), bensì prevedendo la possibilità per le regioni spagnole di adottare propri Statuti di “comunità autonoma”, arrogandosi autonomamente competenze legislative ed esecutive (artt. 148 e 149 C.E.). Questa politica, adottata molto probabilmente nell’ottica di prevenire l’insorgere di conflitti politici in una nazione da sempre contrassegnata da difficoltà nel processo di unificazione, ha un successo immediato: nel 1979 nascono infatti ben 17 Comunità Autonome tra cui la Catalogna, la quale -tra le altre cose- adotta il catalano come “lingua ufficiale” di fianco al castigliano e definisce la propria natura giuridico-sociale come “nazionalità”(nacionalidad). All’inizio degli anni ’80 il processo di decentramento amministrativo e politico spagnolo sembra procedere nella direzione auspicata dai costituenti. Ma non è così: l’utilizzo sempre più esteso della lingua catalana nei settori d’intervento pubblico e soprattutto nell’ambito scolastico, parallelamente alla sempre maggiore popolarità dei partiti sovranisti (indipendentisti) dà grande impulso a una visione sempre più indipendentista nelle generazioni più giovani di catalani3 che ha portato nel 2006 un Parlamento a composizione fortemente sovranista all’approvazione di un nuovo Estatut. Questo nuovo Statuto, sempre più vicino all’attribuzione di poteri quasi sovrani alla Catalogna, sottoposto a referendum popolare con esito favorevole (nonostante la scarsissima affluenza, al di sotto del 50%), aprirà la strada ad un “braccio di ferro” con il governo centrale e la magistratura costituzionale spagnola che ancora è in corso.

La sentenza sull’Estatut

La prima sentenza “politica” del Tribunal Constitucional è la n.31 del 20104. Con questa decisione il Tribunal Costituzionale ha dichiarato in parte l’incostituzionalità “secca” di numerosi articoli dell’Estatut del 2006 e in parte ne ha mantenuto il contenuto ma imposto una diversa lettura attraverso lo strumento delle interpretative di rigetto.

Criticata immediatamente dalla classe politica catalana (e ancora di più dalla popolazione, che ha reagito con una manifestazione di quasi un milione di persone per le strade di Barcellona) ma con una certa enfasi anche dalla dottrina sotto diversi profili, la sentenza verteva sui quattro principali obiettivi dello Statuto: la regolazione del modello bilinguistico, l’incremento delle competenze normative autonome, l’articolazione delle relazioni tra Generalitat e Stato all’insegna del principio di bilateralità e la ridefinizione dei criteri di finanza “autonomica”, volta al trattenimento di una maggiore percentuale delle tassazioni da parte della Regione.

Con la pronuncia si vanno a vanificare de facto tre dei risultati che il legislatore statutario si era imposto, lasciando integro soltanto quello relativo al modello bilinguistico: l’effetto della pronuncia finisce per essere quello di frustrare gran parte dei contenuti innovativi dello Statuto, lasciandolo tuttavia in vigore. Così, esso viene in sostanza riscritto dal Tribunale costituzionale in tutta la sua portata, ne viene alterato lo spirito, se ne deprimono le potenzialità di sviluppo futuro, lo si inquadra all’interno di un modello di distribuzione territoriale del potere che il legislatore statutario intendeva chiaramente superare5.

Le sentenze sui referendum. Un dissidio insanabile

Dalla sentenza del 2010 la distanza rima solitica tra l’autonomia catalana e Madrid si fa sempre maggiore, così come maggiori sono le proteste che si susseguono per le vie di Barcellona. La situazione si aggrava ulteriormente nel settembre, quando il primo ministro Rajoy respinge la proposta per l’adozione di un patto fiscale votato dal Parlamento catalano nel luglio. Le nuove elezioni, a fine anno, confermano al governo della Catalogna ancora gli indipendentisti guidati da Artur Mas, risolutamente intenzionati a portare la propria regione all’indipendenza.

Nel biennio successivo si assiste così ad un inasprimento della querelle tra la Catalogna e il Governo spagnolo, nella quale di nuovo il Tribunale Costituzionale (sottoposto inoltre a diverse critiche per il proprio mancato rinnovo oltre due anni e mezzo dalla scadenza costituzionalmente stabilita) gioca un ruolo chiave.

Già nel maggio 2013 aveva accolto un ricorso proposto dal governo centrale nei confronti di una dichiarazione emessa dall’assemblea regionale catalana nel gennaio dello stesso anno nel quale si definiva la Catalogna una “entità legale e politica sovrana” e si affermava l’intenzione di utilizzare tutti gli strumenti legali per raggiungere l’indipendenza; atto peraltro dal carattere molto generico e privo di efficacia sul piano giuridico, nondimeno ritenuto dalla Corte “un’aperta sfida alla Costituzione” e per questo soggetto al vaglio di costituzionalità.

Ma le decisioni di gran lunga più incisive sono quelle emesse dalla corte costituzionale spagnola nel marzo e nel settembre 2014, entrambe con l’effetto di troncare sul nascere le sempre più frequenti iniziative referendarie dellaGeneralitat.

La prima sentenza6 ha nuovamente ad oggetto la Declaración del gennaio 2013, non più soltanto negli enunciati in cui la Catalogna si definiva “Nazionalità” ma nella sua seconda parte, dedicata al “diritto a decidere” del popolo catalano sull’indipendenza della propria regione. Nella presente decisione, oltre a ribadire l’errata qualificazione dell’autonomia catalana come “sovrana”, il Tribunal si sofferma a lungo sulla legittimità della pretesa del “diritto a decidere” e in tal senso afferma con grande lucidità che la rivendicazione indipendentista catalana –e quindi la pretesa di modifica di uno dei principi fondamentali dell’ordinamento, rappresentato dall’unità dello Stato– non è di per sé da censurare (“la apertura de un proceso de tales características no está predeterminada en cuanto al resultado”, dice la sentenza). Ma le modalità con con cui esso si potrebbe, e dovrebbe, condurre devono essere improntate a un dovere di “lealtà costituzionale” che la Corte richiama enfaticamente come presupposto per il rispetto del testo costituzionale: un’eventuale proposta di referendum per l’indipendenza dovrebbe così essere effettuata nei termini e nelle modalità previste dagli artt. 166 e 87.2 CE, che disciplinano, in lettura combinata, la revisione costituzionale operata su iniziativa delle autonomie costituzionali. In tal caso il Parlamento nazionale non potrebbe non considerare la proposta di modifica.

Ma il monito della Corte, come accade frequentemente, rimane inascoltato: è proprio in quel 19 settembre in cui sono pubblicati i risultati definitivi sull’indipendenza scozzese che il parlamento catalano si riunisce in sessione straordinaria per approvare –a grande maggioranza e tra scroscianti applausi– un decreto con cui è nuovamente convocata una consultazione “non referendaria” (in modo da aggirare la previsione costituzionale ex art. 92 CE che riserva a “tutti i cittadini” la partecipazione ai referendum) prevista per il 9 novembre dello stesso anno. Di nuovo il Tribunale deve decidere sul ricorso di costituzionalità proposto dal Procuratore Generale, che si sofferma sulle problematiche di costituzionalità già esaminate, censurando la violazione di tredici norme costituzionali, dello stesso Statuto catalano nella ripartizione di competenze e di una ferma giurisprudenza costituzionale. I giudici costituzionali, alquanto sorprendentemente, rispondono immediatamente al ricorso di Madrid e, il giorno successivo, votano unanimemente per sospendere il decreto e la consultazione con effetti, per il governo catalano, dal ricevimento della notifica da parte del Tribunal. Da quel giorno il Governo catalano disporrà di 20 giorni per depositare eventuali osservazioni, mentre entro 5 mesi la Corte stessa dovrà decidere se rendere definitiva la sospensione o revocarla, in ogni caso con adeguata motivazione.

Conclusioni e prospettive italiane

gonfalonevenetoIl lungo excursus che qui si chiude offre quindi due esempi chiari per osservare i meccanismi giuridici e politici alla base delle esperienze indipendentiste di Scozia e Catalogna. Si tratta di due percorsi costituzionali antitetici, dai quali è possibile ricavare diversi insegnamenti.

Volendo infatti spostare lo sguardo sul nostro ordinamento, sarebbe ipocrita ritenere l’ordinamento italiano immune da tali questioni: come a tutti noto, la ripartizione territoriale del potere è storicamente un tasto dolente del nostro Paese, tanto da aver portato in tempi più o meno recenti a iniziative legislative, campagne politiche o più raramente attività a carattere sovversivo da parte di gruppi indipendentisti di diversa consistenza e composizione. Tra i più recenti e plateali casi c’è quello della proposta di un referendum per l’indipendenza della Regione Veneto, indetto con Legge regionale 19 giugno 2014, n. 16, prontamente sottoposta, su impulso della Presidenza del Consiglio, al vaglio di costituzionalità. Ma l’esperienza veneta non fa che affiancarsi ad altre istanze indipendentiste, come quella del Movimento Indipendentista Siciliano, i diversi partiti indipendentisti sardi o, tra i tanti, il Süd-Tiroler Freiheit, partito che mira alla tutela del “diritto all’autodeterminazione del popolo sudtirolese” con la contestuale riannessione al Tirolo austriaco.

freiheitNella governance di tali situazioni, quindi, non può che aiutare -di fianco ad un’approfondita conoscenza del diritto costituzionale italiano e dei principi consuetudinari e pattizi del diritto internazionale- un approccio comparato. E, dallo studio dei due casi precedenti, ci si accorge che la via che prevedibilmente verrà intrapresa dalle istituzioni italiane (anzi, che è già stata intrapresa, nel caso del referendum veneto) ricalca l’esperienza della Spagna, naturalmente più vicina al nostro ordinamento sul piano dell’assetto costituzionale rispetto al Regno Unito.

Di fronte alla difficoltà, se non impossibilità, di aprire un canale dialogico tra la pretesa autonomista o secessionista della realtà locale e le argomentazioni centriste dello stato, queste vicende finiscono come nel caso catalano per ricadere in una dannosa unilateralità nell’ambito della quale la Corte Costituzionale, nel suo peculiare ruolo di tutela dell’ordinamento costituzionale, viene da una parte elevata a “scudo” contro istanze centrifughe e dall’altra parte accusata di quello che Gustavo Zagrebelsky definisce come rimprovero più infamante, cioè l’agire muovendo da ragioni politiche e non giuridiche. Problematiche di carattere costituzionale, si badi bene, non mancano: sebbene quello che viene chiamato impropriamente “referendum” nella legge 16/2014 sia in realtà un semplice sondaggio privo di valore giuridico, si comprende come un ipotetico referendum di tale natura sarebbe in contrasto almeno con gli artt. 5 –che sancisce l’unicità e l’indivisibilità della Repubblica italiana–, 75 –dove ammette alla partecipazione di un referendum popolare “tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati”– e 117 –esorbitando l’oggetto del referendum dalle competenze della Regione– della nostra carta costituzionale. E la Corte Costituzionale non può nulla se non agire con la forza in un certo senso “brutale” delle dichiarazioni di incostituzionalità. Ma il continuo espungere dall’ordinamento queste sollecitazioni, per quanto palesemente incostituzionali, non sembra essere la soluzione più adeguata, a meno che non si vogliano le strade di Venezia o Verona traboccanti di manifestanti come a Barcellona. L’esempio scozzese, d’altro canto, rischia di rimanere un unicum nel contesto europeo, stante anche la diversità tra le diverse strutture giuridico-istituzionali.

La domanda con cui si apriva la presente trattazione rimane quindi parzialmente priva di risposta, perchè se da un lato ai popoli soggetti all’oppressione esterna vengono in soccorso il diritto internazionale e il principio di autodeterminazione e dall’altro i processi di federalismo riescono in buona misura nel loro intento di gestire serenamente le spinte indipendentiste, rimane comunque una vasta area di realtà -quella dei gruppi sociali e politici che a gran voce e sempre più frequentemente reclamano il diritto all’indipendenza- che necessitano di una soluzione che sia il più possibile ponderata e giuridicamente solida.

TRATTO DA QUI

NOTE 

  1.  F. FURLAN et al., Costituzioni comparate, Giappichelli, Torino, 2009.
  2.  GIULIO ENEA VIGEVANI, “Il Regno Unito”, all’interno di Costituzioni comparate, Giappichelli, Torino, 2009.
  3.  S. GATTO, La Catalogna tra autonomia e “Stato proprio” in lospaziodellapolitica.com, ottobre 2012
  4.  Tribunal Constitucional de España, sentencia 31/2010, de 28 de junio de 2010 (BOE núm. 172, de 16 de julio de 2010.
  5.  L. ANDRETTO, La sentenza del Tribunale Costituzionale spagnolo sullo Statuto di autonomia della Catalogna, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti – N.00 del 02.07.2010.
  6.  Tribunal Constitucional de España, sentencia 42/2014, de 25 de marzo de 2010 (BOE núm. 87, de 10 de abril de 2014).

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2 COMMENTS

  1. mi domando piuttosto se una carta costituzionale, che nasce per convalidare uno stato e un potere per lo stesso, insinuare anche lontanamente il dubbio nella legittimità dello stesso… è obbligatoriamente affermativa, perché sennò come potrebbe un giorno che qualcuno dall’esterno si mettesse in testa di violarne i confini legittimare una guerra?
    Ma se uno stato si è andato formando con successive aggregazioni di popoli, spesso violente, il momento che questi prendono coscienza di sé e decidono di riappropriarsi della loro identità storica, per una maturazione della consapevolezza di sé che avviene nel tempo, anzi, in tempi lunghi di pace e di tentativi di coesistenza, come può un potere centrale arrogarsi il diritto di reprimere questo nobile anelito di libertà?
    Non c’è carta che tenga di fronte a un popolo consapevole e determinato…
    Il percorso ciascuno lo troverà, destreggiandosi nei tentativi che possono anche non riuscire in prima battuta senza con ciò porre la parola fine… prima o poi riusciranno perché l’anelito alla libertà è insopprimibile!
    e per fortuna… o è un valore l’appiattimento e l’omogeneizzazione generale? non è piuttosto la molteplicità la ricchezza… non solo nella natura ma anche nel mondo degli uomini!
    Meno male che sedi esterne e superiori il diritto dei popoli all’autodeterminazione lo hanno solennemente affermato… ha prevalso la logica e il diritto naturale dico ancora per fortuna!

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