La nazione, come corpo sociale che che si autodefinisce tale e che possiamo a grandi linee – anche se forzatamente – considerare omogeneo, non può che vivere con ansia una scelta che può implicare un cambio radicale del proprio status quo. Non occorre allontanarsi dalla nostra esperienza quotidiana per capirlo: le decisioni che ci mettono davanti a un cambiamento importante del nostro stile di vita ci creano dubbi, paure, ci obbligano a pensarle e ripensarle.
In questo caso, poi, le condizioni sociali ed economiche non presentano quel carattere di urgenza per cui chiaramente si avverte che o si cambia o si muore.
Naturalmente, il fatto che questo carattere di urgenza non sia oggettivo, non esclude il fatto che possa essere avvertito soggettivamente: creare una percezione diffusa della necessità di cambiare è fondamentale per chiunque spinga per un voto che include una trasformazione.
La sfida, perciò, verrà probabilmente vinta dall’attore che riuscirà ad abbassare il livello d’ansia dell’elettore rispetto alla scelta orientata verso il SI o verso il NO.
Ma quali sono i meccanismi che entrano in gioco per facilitare nella gestione di quest’ansia?
Spesso non si tratta di strategie messe giù a tavolino, ma di espedienti che noi tutti adottiamo per prendere decisioni nella nostra vita quotidiana.
Gli stessi politici hanno necessità di placare la propria ansia. Pensate ad Alex Salmond che si gioca ora l’idea per la quale ha lavorato un’intera vita, tentando di traghettare il proprio popolo verso un’indipendenza della quale non può non avvertire i rischi. Non sareste spaventati al suo posto?
Davanti a una scelta di questo tipo, un positivista ci imporrebbe di valutare i costi e i benefici.
Non sempre è possibile, però, fare questa disamina in maniera completa e soddisfacente: le due fazioni presentano argomenti economici diametralmente opposti (staremo meglio vs starete peggio), gli economisti stessi non sono mai d’accordo tra di loro (e talvolta nemmeno con se stessi).
Occorre quindi spingere su argomenti più irrazionali o quantomeno non esclusivamente economici.
Il NO gioca potentemente l’arma dell’ansia: dice “attenzione, la scelta che si sta andando a fare è irreversibile”. Non si potrà più tornare indietro. Ora non stiamo così male, dopo non ci sarà la sicurezza del pound. Il mondo è troppo complesso per essere affrontato da attori piccoli. Chi si separa è cattivo (meriterebbe una punizione).
Ha in questo senso gioco facile, perché lo status quo generalmente – per quanto contestato – ha tutte le sicurezze che ci vengono date da ciò che è conosciuto e che quindi è – o ci illudiamo che lo sia – prevedibile e gestibile.
Il cambiamento implica imprevedibilità, è una scelta temeraria. Una svolta radicale sembra appannaggio dei soli sognatori, dipinti dal NO in maniera negativa perché persone poco razionali e non legate alla realtà.
Gli americani direbbero “Better the devil you know“.
Il SI ha così un compito più difficile.
Scegliere l’indipendenza comporta un livello d’ansia maggiore perché rappresenta una trasformazione sofferta, per quanto comunque sia messa in atto in risposta alla percezione di una crisi.
Deve perciò adottare delle strategie per aiutare l’elettore e indirizzarlo verso questa scelta.
L’ansia può nascere da idee negative che la nazione ha di se stessa: siamo piccoli, siamo disuniti, non siamo in grado.
In questo senso è importante per il SI sottolineare i momenti in cui queste convinzioni si sono rilevate errate: guardate (anzi guardiamo insieme) come abbiamo organizzato i giochi del Commonwealth, siamo stati bravi. Abbiamo un Parlamento che si è dimostrato all’altezza di scelte politiche importanti, siamo capaci.
Il riassunto del concetto è tutto nello slogan di Yes Scotland: We’ve got what it takes.
Lo diciamo per convincere gli altri, ma in realtà vogliamo convincere noi stessi: far vedere agli altri che siamo in grado perché attribuiamo a loro l’idea negativa che in realtà noi abbiamo nei nostri stessi confronti. Se l’altro mi riconosce “capace”, allora forse lo sono davvero.
Un altro espediente per abbassare il livello d’ansia è l’individuare una guida/un genitore premuroso che ci protegga in questo momento di passaggio. Avere qualcuno che ci porta per mano verso il traguardo ci fa sentire protetti, perché – comunque vada – crediamo che si prenderà cura di noi. Se succede qualcosa, ci penserà lui.
Il leader del SI – Alex Salmond – in questo senso deve riuscire a imporsi colui in grado di portare per mano la nazione verso la terra promessa (una Scozia indipendente). Da uomo di partito, la sua immagine deve iniziare a essere dipinta come quella dello statista saggio e capace.
Anche il sentirsi parte di una comunità è un modo utile per combattere le proprie paure.
Se mi sento schiacciato dalle responsabilità, dividerle con qualcuno, sentirmi parte di un gruppo che lavora insieme per lo stesso obiettivo, mi aiuta ad abbassare il livello d’ansia. Grazie alla campagna grassroot è possibile creare quest’idea di condivisione.
Un altro modo può essere individuare un nemico comune (il governo conservatore in Gran Bretagna) o una paura diffusa (i nostri bambini rischiano di vivere in povertà).
Sono poi utili gli esempi “esterni”. Se loro ce l’hanno fatta, noi non dobbiamo avere paura di non riuscire. Questo è un argomento usatissimo dai partiti indipendentisti europei, che volgono sempre lo sguardo alle realtà dei piccoli stati per dimostrare che si può, pur essendo piccoli, creare qualcosa di grande. Forse nemmeno gli estoni sono così convinti dei grandi risultati del loro Paese quanto lo sono alcuni indipendentisti dell’Europa occidentale!
Simile a questo, c’è un paragone che è più interiore e riguarda il percorso di vita dell’elettore. Come quando sono diventato adulto, allontanandomi dalla protezione dei genitori che ho iniziato a sentire come soffocante, così la nazione deve prendere in mano – anche se costa fatica – le proprie scelte diventando adulta e svincolandosi dal rapporto di dipendenza. L’ho fatto nella mia vita privata, perché in politica devo invece rimanere un bambino?
Dalla sua, il SI ha l’entusiasmo di chi – pur terrorizzato – può buttare il cuore oltre l’ostacolo.
La narrazione con la quale può raccontarsi a se stesso è quella dell’eroe epico, che affronta le paure e supera le avversità. Un’immagine potente, che ci affascina fin da quanto la sentivamo raccontata nelle fiabe.
In parte contrapposta a questo tipo di racconto, c’è l’idea – su cui spinge il SI – diun’indipendenza con il freno a mano.
Siamo davanti a una scelta importante ma non radicale: terremo comunque la sterlina, rimarremo nell’Unione Europea, continueremo la partnership con la Gran Bretagna.
L’indipendenza light sembra un’opzione meno spaventosa, maggiormente gestibile a livello cognitivo. Si scontra però con il dubbio che certi accordi richiedano l’assenso altrui (e se non ci faranno tenere la sterlina? E se non riusciremo ad entrare nell’Unione Europea?) e per questo non rappresentino delle certezze solide su cui fare affidamento al momento del voto.
Una strategia che invece l’elettore – purtroppo per i comitati – adotta individualmente è il tentativo di rimandare la scelta (se non sarà ora sarà in futuro, quindi non mi preoccupo adesso) o di ignorarla (non ci penso = non esiste). Si tratta, ovviamente, di due meccanismi sui quali né il SI né il NO hanno interesse a spingere.
Il mio discorso non vale solo per la Scozia, ma anche per la Catalogna e le altre regioni che vogliono diventare indipendenti (come il Veneto). La paura più grande che viene inculcata dagli stati che controllano attualmente queste regioni è quella di predire un futuro negativo fuori dall’Unione europea, lasciate a sé stesse sullo scacchiere mondiale con una propria moneta poco conosciuta negli scambi commerciali internazionali.
Nel continente europeo esistono altre due associazioni economiche e/o politiche, che sono attive tutt’ora, benché l’Ue abbia sempre fatto la parte del cannibale: si tratta dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA, che stabilisce solo la liberalizzazione del commercio) e lo Spazio economico europeo (SEE, che si basa sulle quattro libertà pilastri dell’Ue, la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali).
Alle nazioni che nasceranno da spinte indipendentiste consiglierei l’adesione e la partecipazione ad un’ulteriore sviluppo dell’EFTA, dove il membro più di spicco è la Svizzera e dove il Regno Unito, uscitone nel 1972, potrebbe tornare a farne parte in caso di rottura con l’Ue. Lo SEE oltretutto é poco propenso ad accogliere microstati, si é già dovuto esprimere negativamente sull’adesione di Andorra, Monaco e San Marino un paio di anni fa; l’EFTA invece é aperta ai paesi di piccole dimensioni se fanno richiesta di adesione.
Gli altri 3 membri dell’EFTA sono l’Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia, ma fanno parte contemporaneamente anche dello SEE, cha ha di fatto accettato di attuare la legislazione Ue pur non facendone parte (principalmente non sono d’accordo di cedere la sovranità monetaria). Questo potrebbe essere il contenitore per stati che vogliono abbandonare l’Eurozona e riprendersi appunto la sovranità monetaria.
Non è per niente vero che in Europa esiste solo l’Ue che garantisce interessi comuni, l’Ue è praticamente il male peggiore che stringe i membri in un’unione politica (lo scorso maggio si sono tenute le elezioni di un inutile Parlamento) e con l’eurozona in un’unione monetaria scellerata.
in scozia si pongono il problema se veramente conviene, nel nostro caso sarebbe diverso è sicuro che conviene e quindi l’analisi va ribaltata, non dovrebbe dare ansia andarsene, cioè che dovrebbe dare ansia è restare italiani.
Ciao Gianfrancesco,
sono d’accordo sul fatto che nel caso di Veneto e Lombardia esista un’urgenza economica differente rispetto alla Scozia e quindi una spinta più forte dovuta alla necessità. Credo però che l’analisi rimanga sostanzialmente la stessa, altrimenti probabilmente si sarebbe già più avanti nel cammino verso l’indipendenza.