Dalla lettura di “Scritti politici”, antologia scelta di saggi migliani recentemente raccolti in un volume da Marco Bassani, ciò che traspare in maniera nitida è che stiamo vivendo in un’epoca del tutto particolare, per certi versi entusiasmante, in cui il pendolo della storia pare destinato finalmente a cambiare direzione.
Da un lato, infatti, la parabola dello Stato moderno, con tutto il suo logoro armamentario ideologico, sembra inesorabilmente avviato verso un inglorioso crepuscolo, schiacciato com’è dal peso della sua insostenibilità finanziaria e dalla sua inadeguatezza funzionale; dall’altro, la globalizzazione economica e la rivoluzione telematica stanno abbattendo steccati e stanno consentendo alle persone, a prescindere da dove siano localizzate, di parlarsi, incontrarsi, scambiarsi beni e servizi, produrre valore e arricchirsi vicendevolmente.
Stanno cioè cambiando le condizioni congiunturali, stanno cambiando i riferimenti di fondo, così come è radicalmente mutato lo scenario operativo in cui gli individui si ritrovano ad interagire tra di loro: e questo in virtù di una serie di concatenazioni fattuali complementari e, per certi rispetti, sinergiche. Perché se è vero che “lo Stato unitario è sempre più in crisi perché, in conseguenza della sua staticità e delle sue dimensioni, non è ormai più in grado di appagare, rendendole prima tutte uniformi con la sua autorità, le diverse esigenze di moltitudini di cittadini, le quali esigenze invece si moltiplicano e soprattutto si specificano senza posa e in misura prima sconosciuta” [1], è altrettanto innegabile, quasi fosse una conseguenza logica, che “per capire il cambiamento di fine secolo[del XX secolo, nda]… è necessario comprendere la vocazione al contratto, al pluralismo e al federalismo che nasce dall’impossibilità di gestire altrimenti i bisogni dei governati. Questi infatti sono talmente vari che possono essere soddisfatti solo nel libero mercato” [2].
Da ciò discende che è probabilmente mutata anche la consapevolezza e l’alertness con cui gli attori percepiscono che la inarrestabile e caleidoscopica varianza degli “interessi” nel tempo e nello spazio non può essere sussunta e ossificata, una volta e per tutte, in un capzioso e posticcio “interesse comune”.
In un contesto del genere,parrebbe allora naturale che le relazioni di “comando-obbedienza” dovranno prima o poi cedere il passo a modelli di convivenza sociale diametralmente opposti, incardinati su rapporti di “contratto-scambio” ed in cui le istanze dei singoli e delle loro comunità di riferimento possano trovare una risposta più efficace.
Obbligo politico versus obbligo contrattuale
Di fatto, l’analisi migliana, sin dai primordi, è fortemente focalizzata nell’individuare e nel mettere a nudo la dicotomia stridente, sostanzialmente irriducibile, esistente tra due modalità contrapposte di concepire l’esistenza e di procurarsi da vivere: l’obbligo politico da una parte e l’obbligo contrattuale dall’altra.
Sviluppando in maniera del tutto originale e organica le idee e le teorie che, in gran parte, erano già state elaborate dagli esponenti liberali del laissez-faire dei primi anni del XIX secolo ovvero erano presenti nel filone di ricerca di altri precedenti scienziati sociali – si pensi solamente al sociologo tedesco Franz Oppenheimer – per il professore lariano esistono due modi fondamentalmente opposti cui gli individui possono ricorrere per il soddisfacimento dei propri bisogni: il lavoro, la cooperazione e lo scambio, trasfusi e sintetizzati nel processo di mercato (i “mezzi economici”, secondo la definizione di Oppenheimer); la confisca delle risorse prodotte da altri in seno ai circuiti produttivi, l’appropriazione del lavoro altrui e l’estrazione di rendite parassitarie, tutti fenomeni incarnati in quelle dinamiche che fanno capo al primato dello Stato e della politica (i “mezzi politici”, per riprendere la definizione di Oppenheimer).
Dietro all’eterna e mutevole alternanza storica tra Stato e mercato, Miglio ravvisa quindi due distinti obblighi (“obbligo politico” versus “obbligo contrattuale”), che rispondono, rispettivamente, ad altrettante distinte convenzioni: il diritto pubblico da una parte e il diritto privato dall’altra. Come ha bene messo in evidenza in una delle sue lezioni <<fra gli uomini sono possibili due tipi diversi, contemporanei ma irriducibili, di rapporto: l’obbligazione-contratto interindividuale (in cui si cerca la soddisfazione di singoli, attuali e determinati bisogni, e da qui nasce quindi il ‘mercato’), e il patto di fedeltà politico (in cui si cerca una garanzia globale per tutti i futuri, non ancora specificati bisogni esistenziali, e da qui nascono quindi appunto le ‘rendite politiche’)>> [3].
Il federalismo è nella logica delle cose
La chiave di volta potrebbe rinvenirsi nell’affermazione di una logica effettivamente pluralistica e nella valorizzazione consapevole di istituzioni pattizie e di logiche contrattuali, attraverso cui (i) poter sperimentare nuove forme di relazione e di coordinamento sociale; (ii) poter esplorare differenti soluzioni di coesistenza, che permettano ai bisogni emergenti e mutevoli dei consociati di venire alla luce e di trovare condizioni particolarmente favorevoli per un loro soddisfacimento produttivo.
Ciò consentirebbe il fiorire di inediti schemi negoziali e di nuove forme di cooperazione volontaria passibili di ampliare il novero delle opzioni di scelta praticabili dai cittadini. E così il federalismo, l’assoluto e reiterato chiodo fisso di Gianfranco Miglio, viene ripreso e rielaborato sotto una nuova chiave esegetica, innestato nell’ambito di scenari operativi mutati e di dinamiche relazionali che puntano decisamente verso la valorizzazione del contratto, dell’autonomia negoziale e degli scambi produttivi e spontanei.
Se il federalismo “storico” era nato per aggregare, per coagulare e ricondurre ad unità entità frammentate, il federalismo del nuovo millennio doveva battere nuove strade e proporsi nuovi traguardi, in virtù proprio della presenza di assetti economico-politicinon contraddistinti dai principi dell’omogeneità e dalla pretesa uniformità: “l’approccio è rovesciato: il federalismo finora sperimentato deriva da un foedus che produce e pluribus unum, l’unità nella pluralità. Noi oggi cerchiamo invece il foedus che consenta il passaggio dall’unità alla pluralità, ex uno plures” [4].
Proprio perché tutte le interrelazioni umane tendono ai giorni nostri ad esprimersi contrattualmente, diventa imprescindibile trovare uno strumento che, anche dal punto di vista politico-istituzionale, consenta alle comunità e agli individui che le compongono di “disegnare istituzioni flessibili dal punto di vista del fattore tempo”: i dogmi dell’immutabilità dello Stato, le maschere e le finzioni della sacralità dei confini non possono più reggere all’epoca della rivoluzione digitale.
“L’essenza del sistema federale è non avere poteri sovrani, non avere nemmeno il principio del coordinamento gerarchico dei poteri e quindi tutte le dottrine che si legano in questo aspetto, e invece privilegiare il contratto” [5].
L’intima essenza del neofederalismo migliano replica e rafforza i meccanismi dinamici e creativi insiti nei processi di mercato, condividendone le premesse di fondo e mutuandone, in chiave adattativa, il framework istituzionale di riferimento: “un ordinamento federale è sorretto dal culto della diversità. Inoltre, concorrenza e competizione: c’è uno stretto nesso tra apparire di modelli federali ed economia di mercato; infatti, dove voi non avete l’economia di mercato, ma l’economia amministrata, quindi regimi collettivisti, non può esserci federalismo” [6].
Solo in tal modo, evitando di prescrivere delle specifiche modalità di azione agli individui interagenti, ma ampliandone al contrario gli spazi di manovra, può essere incentivata la pulsione a creare valore, ad inventare, ad intraprendere, a scambiare e a stipulare accordi mutualmente vantaggiosi, nella maniera più completa e moralmente desiderabile; e si supporta altresì il dinamismo virtuoso dei processi di scoperta e di messa a frutto di nuovi mezzi, legittimamente acquisiti dagli individui, da applicarsi a nuovi fini, da loro legittimamente conseguibili, aprendo la strada ad inesplorate opportunità di “guadagno”.
Ma la dispersione policentrica del potere, volta a divellere un’impostazione piramidale e accentrata, presenta un ulteriore, indubbio vantaggio: per sua natura il federalismo, configurandosi come un elemento di frammentazione dei centri di potere, tende a limitare l’espansione di fenomeni degenerativi, insiti nella natura e nella struttura funzionale degli Stati moderni, quali il parassitismo, l’eccessivo arbitrio impositivo e la bulimia regolamentatoria. Di fatto, “è proprio nello Stato unitario di grandi dimensioni che si produce il fenomeno parassitario, e c’è ad ogni livello, per esempio con la crescita dell’apparato burocratico. Lo Stato unitario produce questo fenomeno del parassitismo, noi abbiamo già assistito a un grande stato unitario, quello che era il più coerente, il più coeso di tutti, lo Stato sovietico che ad un certo punto crolla su se stesso: il sistema è crollato perché notoriamente era un pachiderma aggredito da parassiti, mentre coloro che lavoravano e producevano erano una minoranza. Ecco, questo anticipa lo crisi dello Stato moderno” [7].
Insomma, nel pensiero del politologo lariano, ancorché di primo acchito possa non essere di così immediata comprensione, il federalismo è comunque nella logica delle cose, perché è “un sistema, è una tecnica di governo e di struttura che corrisponde alle esigenze del tardo secolo Ventesimo; non è né l’avvento di un’era nuova né nulla del genere” [8].
Posto che non sia comunque troppo tardi, ripartire da Miglio, dalle sue analisi e dalle sue proposte, potrebbe essere non solo intellettualmente sfidante, ma anche pragmaticamente opportuno: una sorta di ultima scialuppa di salvataggio per quei passeggeri consapevoli che il Titanic su cui si trovano sta ormai impattando fragorosamente contro l’iceberg.
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Recensione al volume Scritti politici, di Gianfranco Miglio a cura di Marco Bassani, I libri del federalismo, 2016, p. 227. (CLICCA QUI PER ACQUISTARLO)
NOTE
[1] G. Miglio, “Modernità del federalismo”, in Per un’Italia federale, Ed. Il Mondo, 1990, p. 48.
[2] G. Miglio e A. Barbera, Federalismo e secessione:un dialogo, Ed. Mondadori, 1997, p. 31.
[3] G. Miglio, “Le trasformazioni dell’attuale sistema economico”, in Le regolarità della politica, secondo volume, Ed. Giuffrè, 1988, p. 620.
[4] G. Miglio, Scritti politici, a cura di Marco Bassani, I libri del federalismo, 2016, p. 102.
[5] Ibidem, p. 165.
[6] Ibidem, p. 165.
[7] Ibidem, p. 162.
[8] Ibidem, p. 153.
Grazie delle belle parole, Guglielmo.
Eccellente recensione con cui Cristian Merlo presenta tutti gli aspetti più importanti del pensiero di Miglio, probabilmente il maggior studioso che il nostro paese ha avuto negli ultimi 50 anni.