di REDAZIONE
Di seguito un articolo (uscito sulla rivista ideologica del PCI nel 1950) di rara potenza: Hanno perduto la speranza, pubblicato dall’autore Palmiro Togliatti sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, svela la natura di classe dell’opera letteraria di Orwell e demolisce uno dei maggiori miti alimentati dal capitalismo, ancor oggi vivo. Ciò fa sì che lo scritto di Togliatti, oltre a costituire un esempio di come dovrebbe essere la critica letteraria marxista, conservi gran parte della sua attualità. (1)
- «Con la pubblicazione di questo racconto dell’inglese George Orwell, che si intitola 1984, la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire. Il romanzo d’avvenire! Il semplice richiamo a questo genere letterario è pieno di fascino per chi sa quanta e quale parte esso ha avuto nella marcia degli uomini verso una migliore comprensione del loro destino, verso una più grande padronanza di sé stessi, delle proprie forze e di quelle della natura. Si chiude il mondo antico con la immagine della Repubblica ideale, evocata dalle menti più elette; si apre il mondo moderno con le Città del Sole, con le Utopie, con le Atlantidi, con le Oceanie, con le Città felici, con le Repubbliche immaginarie, costruite dai più audaci tra i sognatori, dai più conseguenti tra i ragionatori. Il Settecento riprende il motivo, lo giustifica in sede di filosofia, lo estende, deduce secondo ragione un ideale regno della natura, introduce e fa muovere sulla scena del tempo personaggi nuovi: il cittadino di un mondo sconosciuto che, seguendo principi di natura e di ragione, critica, schernisce, distrugge le incongruenze della realtà e della storia; il selvaggio buono, che ha nella mente e nel cuore uno specchio di razionalità.
La gente saggia, ch’è venuta poi, dice ch’erano tutte ingenuità e fantasie non giustificate. È in gran parte vero; ma sotto quelle ingenuità e quelle fantasie si avvertono due cose grandi, che sono state molle potenti del progresso umano: da un lato l’audacia di un pensiero che scopre le flagranti ingiustizie della società esistente e lo slancio di un sentimento che ad esse non si acqueta; dall’altro lato la fiducia spesso senza limiti nella ragione umana, e la certezza, quindi, che le ingiustizie presenti saranno riparate e corrette, e un mondo migliore sarà costruito, dagli uomini stessi, e potrà esistere, e in esso vi sarà benessere, felicità, gioia, per il maggior numero possibile di umani. Altra cosa è il romanzo d’avvenire della borghesia dei nostri giorni, capitalistica e anticomunista, convinta oramai, in sostanza, che la propria fine è possibile e vicina, e decisa, perciò, alle ultime difese. Che alcuni dei suoi uomini, o degli uomini di cultura che si conformano al costume della casta dirigente e la servono, – letterati, artisti, filosofi – possano avvertire le flagranti ingiustizie del mondo contemporaneo e metterle in luce, parlare dei ricchi e dei poveri, dire che quelli son tracotanti e questi son disperati, che i quartieri operai d’una grande città sono un inferno e che è una dannazione la esistenza dei lavoratori nelle grandi fabbriche, nelle colonie, negli ergastoli dove si creano ricchezze e fasto per una casta di privilegiati, – sì, questo potrebbe ancora, entro certi limiti, venir tollerato. Sia ben chiaro, però, che se si insiste troppo questa non è più arte, è attività politica, è lavoro dell’“agitprop”. La realtà bisogna che l’artista la sappia trasfigurare, perbacco; infonderle un soffio di “eticità”; vederla nella coscienza del singolo, dove si possono far diventare grigi tutti i gatti, e l’atto di chi si mette il pigiama per andare al cesso può sprigionare, attraverso il crogiuolo delle parole, altrettanta emozione dello spirito quanto il fatto del bambino che è morto di fame perché il padre e la madre non hanno lavoro. Se vi tenta la descrizione dei fatti, ebbene, descrivete; ma non vi tenti Victor Hugo o Emilio Zola, non date giudizi, non li suggerite. La società non è il vostro tema. Se mai il male sociale vi colpisca e vi soffochi, evadete, evadete: quante cose non si possono scoprire al di sopra della realtà! E non vi seduca nessuna indagine da cui possa scaturire il richiamo a un’azione liberatrice, soprattutto! Non evocate il demonio che è all’agguato! Le radici del male stanno in ciascuno di noi, perché siamo tutti egualmente peccatori, e se anche non abbiamo proprio colpa per aver individualmente peccato, c’è il peccato originale, che spiega tutto, che dà egual senso metafisico all’azione di chi nega la mercede e a quella di chi deve lottare per ottenerla.
Come si può prevedere, giunti a questo punto, o costruire, o sognare un avvenire diverso, una diversa società, la fine per il genere umano delle ingiustizie, delle sofferenze inutili, delle miserie, della guerra, di tutte le altre cose mostruose del giorno d’oggi? Non soltanto questo non si può fare, ma occorre fornire la dimostrazione precisa, scientifica vorremmo dire, che qualsiasi sforzo generale e vasto si compia dall’umanità, o dalla parte più avanzata e cosciente degli uomini, per uscire dalle contraddizioni e dalle angosce del presente, gettar le fondamenta di una società nuova e ben ordinata, e costruire questa società, non può condurre ad altro che a un disastro, alla umiliazione della ragione umana, al suo annientamento e all’annientamento di tutto ciò che per gli uomini ha sempre avuto e sempre avrà un valore: la libertà, la dignità personale, la passione per il vero, per il bello, per il giusto. Così siamo giunti a George Orwell e al suo scritto. Siamo giunti cioè ancora una volta al romanzo di avvenire, ma a un romanzo di avvenire che è precisamente l’opposto di quelli che furono pensati e scritti nei secoli trascorsi, nell’antichità, nel Rinascimento, ai tempi dell’illuminismo, del primo socialismo. Quelli erano la parola – o il sogno, se volete – di un mondo in cui regnava, o rinasceva, dopo secoli di oscurità, la fiducia nell’uomo, la fede nella ragione umana. Erano espressione fantastica di una grande e giustificata speranza. Questo è la parola di chi ha perduto qualsiasi speranza, di chi è intento a spegnerla là dove ne sia rimasta traccia alcuna. È il punto di arrivo della sfiducia nella ragione degli uomini e nelle sorti stesse del genere umano. - A dire il vero, qui saltano fuori anche i difetti del libro dell’Orwell. Egli presenta, sì, il quadro di un futuro catastrofico per l’umanità, ma quando cerca di dare una giustificazione della catastrofe, – e una giustificazione deve darla, altrimenti non si capisce come gli uomini siano potuti arrivare al punto ch’egli descrive, – rivela una totale assenza di fantasia, si riduce a ripetere i più banali argomenti della più vecchia delle polemiche contro il socialismo. La tesi è che non è possibile creare e mantenere la uguaglianza, perché, fatti i primi passi in questa direzione, si ricostituisce un gruppo dirigente e questo, non volendo abbandonare il potere, mantiene la grande massa degli uomini lontana dalla ricchezza. Se non facesse così, i suoi privilegi, – asserisce l’Orwell, – andrebbero perduti. Il potere, poi, per essere mantenuto, richiede la organizzazione gerarchica di un ceto dirigente, ed in questa organizzazione gerarchica quegli uomini che ne fanno parte perdono ogni personalità, libertà, dignità, sono sottomessi alla volontà tirannica di un capo o di un gruppo di capi supremi, che li riducono a essere semplici strumenti passivi e inconsapevoli di qualsiasi abiezione. Al di sotto della gerarchia dirigente, la grande maggioranza degli uomini vive nell’abbrutimento e nella miseria, e per impedire che i beni ch’essa produce in grande quantità servano a elevarne le condizioni, gli stessi beni sono sistematicamente distrutti in una guerra ininterrotta, nella quale si affrontano i tre grandi Stati in cui è divisa la terra, senza che alcuno di essi mai vinca, però, e senza che le gerarchie dirigenti nemmeno desiderino la vittoria, poiché questa potrebbe porre fine al loro potere. Il tutto, come si vede, è primitivo, infantile, logicamente non giustificato, oppure giustificato soltanto dal richiamo, come dicevamo, a una di quelle “massime eterne” con le quali gesuiti e liberisti credono di avere risposto efficacemente a chi rivendica maggiore giustizia sociale (che la diseguaglianza non si sopprime; che i potenti e i servitori dei potenti e i poveretti ci son sempre stati e ci saranno sempre; che lo sforzo per dominare il mondo economico e dirigerlo si conclude con la fine della libertà). Questo è il primo motivo del relativo successo del libro, che una rivista di sedicenti liberali ha pubblicato in appendice, che raccomandano i preti e Benedetto Croce (il quale, però, forse non l’ha letto tutto con attenzione, come vedremo).
L’altro motivo è che l’autore, quando deve descrivere lo stato di catastrofica abiezione cui è ridotta la umanità per il tentativo fatto dagli uomini di creare un mondo ove regnino l’eguaglianza e la giustizia, accanto ad alcune note che chiameremo di varietà, accumula con la maggior diligenza tutte le più sceme fra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i paesi socialisti. Nota di varietà, per esempio, è il divieto ch’è fatto ai membri di sesso diverso della gerarchia dirigente di amarsi e congiungersi con amore. La giustificazione anche qui manca, ma la cosa serve a introdurre alcune scene erotiche e qualche parolaccia, secondo la formula corrente dei libri che si vendono. Per il resto, la gerarchia dirigente si chiama “partito”; vi sono anzi due “partiti”, uno che dirige l’altro; nel “partito” vi sono continue epurazioni, persecuzioni, soppressioni; si sopprimono, anzi, tutti coloro che han contribuito a far la rivoluzione e se ne ricordano, e regna il terrore davanti ai dirigenti, potenti ma sconosciuti. Nel “partito” si insegna a commettere, per il “partito”, le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti, ad affermare che due più due fanno cinque e non quattro, e così via, fino a che dell’uomo intelligente non resta più nulla. Il capo del “partito”, infine, ha i baffi neri, e il suo nemico mortale la barbetta a punta. C’è tutto, come si vede; ci sono principalmente tutte le bassezze e le volgarità che l’anticomunismo vorrebbe far entrare nella convinzione degli uomini. Mancano solo, ci pare, i campi di concentramento, perché per sventura sua l’autore è scomparso prima che questa campagna venisse lanciata. Altrimenti ci sarebbe, senza dubbio, un capitolo in più. Ma il potere della casta che governa questo mondo mostruoso su che cosa si regge, in sostanza? Perché ubbidisce al gruppo più elevato la gerarchia intermedia; che cosa tiene assieme questo “partito” di sciagurati e di cretini; quale forza o quale metodo consente a chi sta in alto di ridurre chi sta in basso alla condizione che abbiamo veduto? Confessiamo che arrivati a questo punto aspettavamo qualcosa di notevole, di impressionante, perché solo qualcosa di simile, cioè un assieme di mezzi misteriosi e potenti potrebbe spiegare il risultato catastrofico che l’autore ci vuol presentare. Ahimè! a questo punto si scopre invece proprio soltanto l’autore, nella meschinità e abiezione che a lui stesso sono proprie. Eccolo, l’autore, secondo le indicazioni biografiche fornite non da noi, ma dall’editore stesso, non sappiamo se a titolo di raccomandazione: – la sua carriera si apre nella polizia imperiale inglese della Birmania, di cui è funzionario per sette anni; poi lo si incontra in altre colonie e in qualche centro di vita internazionale; scoppia la guerra di Spagna, ed eccolo in Catalogna, il funzionario della polizia inglese e, naturalmente, tra le file degli anarchici. Quali mezzi misteriosi e potenti per estendere il proprio dominio sugli uomini poteva inventare un simile tipo? E non ha inventato nulla, difatti. Il mezzo ch’egli conosce è uno solo, quello che si adopera contro gl’indigeni in Birmania e altrove, le botte, il calcio negli stinchi, la mazzata nel gomito, la tortura con la corrente elettrica, e poi lo spionaggio, s’intende, ch’è sempre il cavallo di battaglia. E così il racconto chiude con cento pagine di percosse e la minaccia di un supplizio coi topi, copiato, se non erriamo, da Octave Mirbeau, e con stupore ti accorgi che su niente altro che sulle percosse dovrebbe reggere la costruzione intera. - Doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana. Questa è la sola parola che seriamente e alla fine esce dal suo libro. Bisogna picchiare gli uomini, per espellere dal cuore e dalla mente loro la passione per la libertà, la giustizia, l’eguaglianza; la passione per la generosa utopia. Picchiateli, torturateli, riduceteli un mucchio d’ossa e di carni sanguinolente; allora sarete sicuri di mantenere su di essi all’infinito il vostro potere. Allora non avrete più da temere nulla per la tranquillità della casta dirigente. Non è l’ultima saggezza, questa, della classe che con la bandiera dell’anticomunismo pretende il dominio sul mondo intiero e crede davvero, con le botte, di fermare il corso della storia? Ma le botte servono davvero a troppe cose, nel libro di George Orwell. Vedete che cosa succede a pag. 263. Siamo a un momento culminante della tortura. La vittima è già sfinita, impotente. Ma le botte fioccano ancora e s’accresce il tormento; il poliziotto torturatore ha infatti altre pretese. È una convinzione filosofica, quella ch’egli esige. “Tu credi – dice – che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto?”. Pazzia! Bisogna credere che la realtà non è esterna, che esiste solo nella mente degli uomini… Potenza delle percosse! Persino l’idealismo filosofico viene accettato, dalla povera vittima, senza convinzione, s’intende, ma per farla finita. Avrà letto anche questa pagina, Benedetto Croce, prima di lanciare il libro così come ha fatto? Speriamo, ad ogni modo, che almeno per l’idealismo filosofico si voglia fare eccezione, onde noi possiamo continuare, senza correre il rischio del terzo grado, ad aver fiducia nella ragione umana, ad essere e dirci materialisti, a coltivare le nostre speranze».
NOTE
13. R. Di Castiglia (pseudonimo di P. Togliatti), Hanno perduto la speranza, Rinascita, anno VI, n° 11-12, novembre-dicembre 1950.
La disonestà intellettuale dei comunisti concentrata in poche righe: ciò che Orwell critica e condanna viene fatto passare come esaltazione. Per loro l’annientamento dell’individuo sarebbe sinonimo di “maggiore giustizia sociale”. I quartieri operai delle città sono un inferno? Vero, come a Bologna dove le sinistrissime giunte hanno costruito e assegnato case popolari a ridosso dell’aereoporto. Piacevoli le notti dei residenti! I cretini che approvavano scritti come questo erano tanti, troppi, già in quegli anni.
Togliatti è stato la peggiore canaglia dopo Lenin e Stalin.
In Europa. Perché Mao Tse Tung e Pol Pot sono stati peggiori di tutti e tre.