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La serenissima stato illiberale e oppressivo? un’altra invenzione italica

Da leggere

di ROMANO BRACALINI 

venezia-repubblica-cartina“La Serenissima stato oppressivo e illiberale”, scrive il giornalista dell’Arena. Chissà dove l’ha letto. Qualunque bigino rovescerebbe il quesito e raccomanderebbe all’autore una più diligente e accurata lettura.L’espansione territoriale di Venezia comincia all’inizio del Quattrocento dopo la guerra con Milano che avrebbe fissato stabilmente il confine ovest alla linea dell’Adda. Nel 1405 l’esercito veneziano occupò Padova che sottoscrisse un patto di “libera dedizione” alla Serenissima, insieme con Verona, Vicenza, Rovigo, Treviso, Belluno, Feltre. In seguito Bergamo e Brescia fecero anch’esse parte della Serenissima; e il loro dialetto ne risente. Venezia si impegnò a concedere una Costituzione politica-istituzionale di natura federativa ai territori e alle città che erano presenti nel vasto “Dominio da Terra”. Gli ordinamenti comunali vennero restaurati dopo le soppressioni delle casate signorile, vennero garantite le antiche libertà e vennero rinegoziati sia i contenuti dell’autonomia sia le esenzioni fiscali e le forme di unioni con la Serenissima. Venezia consolidò la sua presenza politico-militare in tutta la terraferma, affidandola all’autorità di un proprio Rettore, o Podestà ,e di un Capitano, e di un Camerlengo, che aveva funzioni di tesoriere e di esattore fiscale, scelti tutti tra il patriziato del Maggior Consiglio della Serenissima, l’organo costituzionale rappresentativo della repubblica nelle sue due articolazioni statali: il “Dominio da Mar” e, dal secolo XV, il “Dominio da Terra”. Era già una eccezione che in una Europa di Monarchie assolute,esistesse una repubblica che corrispondeva alle esigenze dei diversi popoli che la componevano. Negli anni che seguirono Venezia rafforzò il multicentrismo interno ai territori della repubblica. Ogni città ebbe un proprio podestà che portava a Venezia le richieste e le necessità dei cittadini. La forma di governo, l’amministrazione, la giustizia imitavano i modelli della Serenissima, ma, dato degno di nota, tutti i poteri amministrativi e giurisdizionali venivano esercitati dai territori. Nelle cause penali si mantenevano alcune forme antiche come quella che esponeva il reo “alla berlina”: messo cioè a cavalcioni di un asino sulla principale piazza cittadina.In questo modo,senza sottoporre il colpevole a una condanna troppo crudele,si riteneva che il ridicolo cui era esposto sortisse già un effetto esemplare e pedagogico. In un periodo in cui era largamente diffusa la tortura (anche nello Stato della Chiesa), questo sistema pareva il frutto di una giustizia tollerante, moderna e civile. Anche il sistema delle garanzie giudiziarie era molto efficace e teneva conto dei diritti fondamentali del cittadino. Val la pena di ricordare che fin dal secolo XIII la Serenissima aveva stabilito in un mese il limite massimo che poteva intercorrere,per qualsiasi indiziato di reato, tra il momento dell’arresto e quello del processo.

Il confronto con la prassi borbonica della repubblica italiana ci umilia. Pratiche di governo moderne, fisco equo, amministrazione corretta costituirono,col passare del tempo,un modello di vita e la base per la formazione di una specifica identità veneta, composta di molte nazionalità,tutte egualmente rappresentate. La lingua veneta era la lingua del popolo e del Senato. Il senso di queste autonomie statutarie si concretizzava in forme di garanzia e di risarcimento dei danni sofferti negli anni di guerra.I territori non dovevano aspettare anni. I provvedimenti erano rapidi e spediti. Così la repubblica rispettava i cittadini. Un insieme di provvedimenti concordati e garantiti capaci di legare le numerose e diversificate comunità in una forma inedita e originale di moderna federazione. L’avvento degli stati nazionali, con la loro brama di guerra e di conquista, relegarono in un ambito sempre più secondario e difensivo la Serenissima, il più antico stato d’Europa. Il trattato di Campoformio, tra Austria e Francia, del 1797, ne decretò la caduta ma non ne ha cancellato la memoria, che torna a ispirarci nel fallimento dello stato autoritario e illiberale italiano.

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4 COMMENTS

  1. par fortuna quel ke ghe insegnarò a le me do toxe sarà calcossa de diverso da quel ke’l scrive el porecan de l’Arena, ke a la fine del mese el dovarà pur portarse a casa la paga…

  2. Roma e i romanofili sono impastati di paura.
    Se Lombardia e Veneto dovessero andarsene chi li manterrebbe ?
    Questi romanofili non hanno neanche una dignità personale.
    Se personalmente dovessi ricevere le accuse che ricevono loro, mi ritirerei sulla cima di una montagna mangiando pane e cipolle, pittosto che difendermi con palle e storielle come si difendono loro.

  3. PERASTO 1797 23 AGOSTO

    “In sto amaro momento, che lacera el nostro cor; in sto ultimo sfogo de amor, de fede al Veneto Serenissimo Dominio, el Gonfalon de la Serenissima Repubblica ne sia de conforto, o cittadini, che la nostra condotta passada che quela de sti ultimi tempi, rende non solo più giusto sto atto fatal, ma virtuoso, ma doveroso per nu.
    Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l’Europa, che Perasto ha degnamente sostenudo fino all’ultimo l’onor del Veneto Gonfalon, onorandolo co’ sto atto solenne e deponendolo bagnà del nostro universal amarissimo pianto.
    Sfoghemose, cittadini, sfoghemose pur; ma in sti nostri ultimi sentimenti coi quai sigilemo la nostra gloriosa carriera corsa sotto el Serenissimo Veneto Governo, rivolzemose verso sta Insegna che lo rappresenta e su ela sfoghemo el nostro dolor.
    Per trecentosettantasette anni la nostra fede, el nostro valor l’ha sempre custodìa per tera e par mar, per tutto dove né ha ciamà i so nemici, che xe stai pur queli de la religion.
    Per trecentosettantasette anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre per Ti, o San Marco; e felicissimi sempre se semo reputà: Ti con nu, nu con Ti;
    e sempre con Ti sul mar nu semo stai illustri e vittoriosi.
    Nissun con Ti n’ha visto scampar nissun con Ti n’ha visto vinti o spaurosi!
    Se i tempi presenti, infeicissimi per imprevidensa, per dissension, per arbitrii illegai, per vizi offendenti la natura e el gius de le zenti, no te avesse tolto dall’Italia, per ti in perpetuo sarave stae le nostre sostanze, el sangue, la nostra vita, e piutosto che vederTe vinto e desonorà dai Toi, el coraggio nostro, la nostra fede se avarave sepelio soto de Ti!
    Ma za che altro no resta da far per Ti, el nostro cor sia l’onoratissima To tomba e el più puro e el più grande elogio, tò elogio, le nostre lagreme”.

    Dopo la Messa e le parole sopra riportate, mons. Ballovich conclude con grande chiarezza storica:

    “Terminato questo discorso, Monsignor Abate ne pronunziò un altro sullo stesso soggetto e con sentimento di uguale commozione; indi il Capitano si levò, ed afferrato un lembo dello Stendardo vi pose su le labbra senza poternele divellere, e ciascuno a gara concorse a baciarlo tenerissimamente, lavandolo di calde lacrime.
    Ma dovendosi una volta por fine alla cerimonia dolente, si chiusero quelle care insegne in una cassa che l’Abate collocò in un ripostiglio sotto l’Altar Maggiore.
 Poiché fu compiuto questo atto di verace attaccamento, non che gli altri uffizi dettati dal cuore, il popolo taciturno uscì di Chiesa portando in volto l’impronta della tristezza, e dell’ambascia, contrassegni li più infallibili della procella dell’anima.

  4. Il giornalista dell’Arena deve avere un Dio per conto suo, o deve ricevere tanti soldi da giustificare anche la più infame delle calunnie.
    La “fedeltà” a Venezia e alle sue Istituzioni è testimoniata dalle “insorgenze” che avvennero in tutto il territorio della Repubblica durante l’invasione dell’infame Còrso ed anche durante le susseguenti “occupazioni”: austriaca ed italiana.
    Tutte, insorgenze, condotte in nome di San Marco.
    Tale era la nostalgia per quel regime tollerante e rispettoso dei diritti della gente.
    Nostalgia, dell’antico Regime, non soltanto nello Stato da Tera, ma anche fra gli abitanti dello Stato da Mar: mano a mano che la piccola flottiglia del bartone Rucavina, ammiraglio della, appena abbozzata, Marina austriaca procedeva ad occupare le città della Costa dalmata; giusto l’Accordo di “Laoben” le popolazioni si riunivano nelle chiese per dare l’ultimo addio al gonfalone che veniva ammainato per l’ultima volta.
    Questo avvenne anche a Perasto, Gonfaloniere della Repubblica: ultimo Paese dello Stato Veneto da Mar, ai confini dell’Albania.
    La cronaca dell’Orazione ci è stata tramandata da Giustina Renier, presenta alla cerimonia.

    LA FEDELTA’ A VENEZIA: ALLOCUZIONE DI PERASTO

    Tratto da “ATTI E MEMORIE DELLA SOCIETA’ DALMATA DI STORIA PATRIA” presso Scuola dalmata ss. Giorgio e Trifone, Castello 3259/a Venezia
    a cura del prof. Luigi Tomaz.

    Caduta la Serenissima Repubblica in seguito all’avanzata napoleonica del 1797, l’Austria occupa militarmente la Dalmazia. I perastini sono costretti, loro malgrado, ad ammainare, ultimi fra tutti i paesi della Repubblica, lo stendardo di San Marco, che con una mesta cerimonia, descrittaci dal contemporaneo mons. Vincenzo Ballovich, viene deposto nella cattedrale del paese.
    “I perastini non che le genti del suo Territorio, ed altre ancora, si ragunarono dinanzi all’abitazione del Capitano ove le Venete Insegne si custodivano. Ivi giunto il Luogotenente con dodici uomini, rappresentanti la guardia del Regio Gonfalone, armati di sciabola, seguiti da due Alfieri e preceduti da un Giudice, si recò nella Sala, dove stava la Bandiera di Campagna, e il vessillo del Gonfalone, che da più secoli la Veneta Repubblica per speciale e distinto privilegio aveva affidato al valore ed alla Fedeltà dei Perastini. Dovevano essi levare quelle amate insegne; ma nel punto di eseguire un atto, che squarciava i loro cuori, perdettero le forze, e tante solamente ne conservarono, quante bastavano a versare un diluvio di pianto. Il Popolo che affollato stava aspettando, e che non vedeva più nessuno uscire dalla Sala, non sapeva che pensarsi.
    Mandossi un secondo Giudice del paese per ritrarne il motivo; ma questo rimase sì altamente commosso che con la sua presenza altro non fece, che aumentare la tristezza degli altri. Finalmente il Capitano, vincendo per necessità sè medesimo, fa uno sforzo doloroso: distacca le insegne, le fa inalberare su due picche: le passa in mano ai due Alfieri, che scortati dai dodici Gonfalonieri e dal Luogotenente escono in ordinanza dalla Sala, e su’ lor passi vengono ed il Capitano e li Giudici e tutti gli altri.
    Appena fu visto comparire l’adorato Vessillo che diventò comune il lutto e universale il pianto. Uomini, Donne, Fanciulli tutti mandano singhiozzi, tutti spandono lacrime. Altro più non s’ode, che un lugubre gemito, contrassegno non dubbio dell’ereditario attaccamento di quella generosa nazione verso la sua Repubblica.
    Giunta la mesta comitiva in Piazza, il Capitano toglie dalle picche le insegne, e ad un tempo vedesi calar la bandiera di San Marco dalla Fortezza, che tira ventun colpi di Cannone. Due vascelli armati per guardia del porto le rispondono con undici spari, e così fanno tutti i Vascelli Mercantili che ivi si trovano.
    Fu questo l’ultimo atto che la fama posta a lutto diede al valor nazionale.
    Le ossequiate insegne furono poste sopra un bacino; il Luogotenente le ricevette in presenza dei Giudici, del Capitano e del popolo. Indi marciarono tutti con passo lento e malinconico alla volta della Chiesa principale. Colà giunti, vennero accolti dal Clero e dal suo Capo, al quale si fece la consegna del venerato deposito, e lì lo pose sull’Altar Maggiore.
    Allora il Conte Giuseppe Viscovich Capitano di Perasto proferì il seguente discorso, che fu tratto tratto interrotto da vivi singulti e da rivi di lacrime sorgenti ancor più dal cuore che dagli occhi”.

    Susciterebbe uguale commozione e rimpianto, la “Caduta dell’Italia” ?

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