di ALESSANDRO MORANDINI
Premessa
Questo articolo è un invito, una proposta di studio rivolta al complesso e variegato mondo degli indipendentismi padani. In esso si avanza un’ipotesi, argomentandola mediante un approccio che ricorda, come il titolo, un metodo di lavoro che in sociologia non ha forse prodotto importanti sistemi teorici, ma che vanta un suo peculiare valore: aver formato schiere di sociologi riconosciuti per il fatto di non essere ascrivibili ad alcuna scuola.
“Lo sguardo sociologico” è il titolo dato alla raccolta dei più importanti scritti di Everett C. Hughes. Come alcuni dei suoi allievi, tra i quali bisogna menzionare Erving Goffmann, padre dell’interazionismo simbolico, Hughes non completò mai la sua opera costruendo una teoria di lungo raggio, come spesso è successo, per molti anni, nell’ambito della disciplina sociologica. I suoi scritti appaiono asistematici, talvolta perfino disordinati; e tuttavia la loro lettura offre a chiunque abbia intenzione di indagare il funzionamento della società, interessanti e spesso illuminanti descrizioni che aiutano ad orientarci nella comprensione del complesso mondo della vita sociale. In particolare del complesso mondo sociale della vita quotidiana.
In effetti Hughes, come il suo più noto allievo, hanno promosso stili di indagine e di elaborazione per i quali la ricerca qualitativa sul campo, in particolare l’osservazione partecipante, è più importante, o almeno altrettanto importante, del lavoro in scrivania.
Questo articolo però è non è il risultato di una ricerca qualitativa, anzi è sicuramente deficitario di un contributo di quel tipo. In esso si avanza, come già scritto, una ipotesi, essa si debitrice dello sguardo sociologico che Hughes intendeva stimolare attraverso i suoi scritti. Dall’ipotesi all’invito ad uno studio più sistematico il passo è breve: nella prima è implicito il secondo. Si indicheranno alcuni percorsi possibili e metodologie di ricerca che possono avvalorare o screditare la tesi che qui in poche parole viene riassunta: gli indipendentismi padano-veneti, pur essendo ideologie e sensibilità politiche, non possono essere ridotti ad una collezione disordinata e discontinua di pratiche collettive, di singole ed isolate lotte orientate dal desiderio di indipendenza di questa o quest’altra area territoriale. Essi rappresentano invece una istituzione particolare che ormai caratterizza il mondo politico europeo.
L’articolo è diviso in due parti. La prima è una breve descrizione di alcune soluzioni ai problemi di azione collettiva. Si tratta di una introduzione semplificata, che non aggiunge nulla a quanto viene studiato in tutti i corsi di sociologia. Nella seconda parte si sviluppa, alla luce di quanto descritto, il rapporto tra indipendentismo e stato per come si configura nel nord Italia, proponendo e spiegando i problemi e le opportunità che l’istituzionalizzazione degli indipendentismo padano-veneti comporta.
Istituzioni, negoziazioni e discussioni
Un problema di metodo
Per poter valutare le dinamiche di interazione tra gli indipendentismi di area padano-veneta e l’Italia è possibile attribuire ad entrambi i soggetti la facoltà di prendere decisioni, senza con ciò rinunciare ai postulati dell’individualismo metodologico. E’ sufficiente restituire allo stato ed agli indipendentismi le caratteristiche proprie delle istituzioni pubbliche e private: la decisione deve quindi essa descritta quale risultato di interazioni tra individui, determinato da meccanismi che devono essere resi espliciti.
Gli individui nelle istituzioni
Quando stabiliamo che la lotta politica della quale siamo partecipi testimoni o attivi produttori vede da una parte l’indipendentismo e dall’altra lo stato italiano, sorvoliamo sul fatto che tanto l’una quanto l’altra fazione sono il frutto di processi generatori di ordine sociale che danno luogo ad istituzioni pubbliche o private, le quali, pur producendo decisioni univoche, sono perturbate dalle scelte compiute dai singoli individui. Se assumiamo un obiettivo nel campo indipendentista o nel campo dello stato italiano, non possiamo limitarci agli obiettivi ideali che l’intellettuale, producendo un discorso, esprime. Possiamo anche concederci il lusso, in parte rispondente a verità, che il discorso indipendentista scaturisca da una tensione umana alla libertà; ma concludere che la lotta politica si risolva in una battaglia tra libertà ed oppressione attribuendo ai soggetti collettivi individuati le due rispettive missioni significa, ancora una volta, produrre un discorso utile alla battaglia ma non perciò stesso vero.
I partiti politici e le associazioni di vario genere che rispondono formalmente all’imperativo indipendentista, sono anche la manifestazione di uno specifico caso di più o meno riuscita cooperazione tra individui che hanno in testa il desiderio di indipendenza, ma non solo il desiderio di indipendenza (siamo tutti motivati da diversi desideri, egoistici ed altruistici, da interessi ed altro). Peraltro anche gli individui che operano per conto dello stato italiano non possono essere ridotti a semplici componenti inermi e completamente etero-diretti, impegnati, anzi impiegati nel progetto di conservazione dell’integrità dello stato.
Come sempre, piuttosto che qualificare le singole persone ed il loro carattere, si tratta di definire i meccanismi e le condizioni che danno luogo ai comportamenti, fermo restando che i medesimi comportamenti sono influenzati anche dalle inclinazioni psicologiche individuali ma in una misura molto inferiore rispetto a quella che la psicologia della gente comune vorrebbe. Così come è noto a tutti che talune persone esprimono inaspettate doti o vizi quando le circostanze cambiano, è altrettanto verificabile che in non pochi casi la situazione sociale è così determinante che le sfumature individuali, pur esistendo e resistendo, non hanno alcuna influenza sul comportamento. Per quanto una persona sia altruista e motivata da una forte ideologia statalista, non potrà immediatamente gioire di un incremento anche minimo delle tasse allo stesso modo in cui gioirebbe per una vincita alla lotteria: al massimo si servirà delle sue credenze per accettare e giustificare una cessione di denaro che avrebbe preferito evitare.
Decisioni, premi e sanzioni nelle istituzioni e la pretesa di adesione obbligatoria
Le istituzioni pubbliche si distinguono da quelle private perché in queste ultime l’adesione non è obbligatoria. Analogamente alle istituzioni private, quelle pubbliche prevedono premi e sanzioni utili a far rispettare le regole prescritte; più precisamente le sanzioni aumentano il costo sociale di un’azione, dal momento che non possono impedirne la realizzazione. Le sanzioni delle istituzioni private e pubbliche sono esplicite e formalizzate; ma se nel primo caso, essendo l’adesione volontaria, la sanzione massima è l’esclusione, nel caso delle istituzioni pubbliche la sanzione massima va dall’esilio, alla reclusione, fino alla condanna a morte.
Tanto nelle istituzioni pubbliche quanto in quelle private devono essere prese delle decisioni vincolanti per tutti gli individui; decisioni finalizzate a normare comportamenti, quindi a costruire ordine sociale. Le istituzioni, a differenza delle norme sociali o dell’interazione negoziale, realizzano ordine sociale predisponendo procedure atte a centralizzare le decisioni, così da garantire il coordinamento delle azioni e la cooperazione tra individui, rendendo molto costosa la defezione.
Come si è già detto, quando si parla di decisioni bisogna ricordare che a prendere le decisioni sono invariabilmente degli individui. Le istituzioni, pubbliche o private, possiedono procedure formalizzate attraverso le quali alcuni individui e non altri possono decidere per tutti. Quando si dice che, per esempio, l’Italia, la Chiesa, una Regione o un partito hanno deciso qualcosa non ci si può riferire (anche se qualcuno pretende di poterlo fare) al fatto che le suddette istituzioni posseggono una coscienza che consente loro di fare delle scelte. Tutto ciò che si può dire senza incorrere in errore è che uno o più individui hanno preso una decisione rispettando le procedure che vincolano tutti i membri dell’istituzione ad attenervisi. Le procedure attribuiscono competenze a determinati uffici, e definiscono i criteri di allocazione degli individui nei vari uffici.
E’ possibile interpretare la guerra tra Stati come una condanna a morte comminata da singoli individui, nel rispetto delle procedure che consentono di decidere per tutti. Le persone sanzionate sono state immediatamente giudicate come trasgressori dell’adesione obbligatoria tipica di ogni istituzione pubblica. La sentenza di morte emessa dagli individui che godono di potere politico ed i decreti attuativi emessi dal comando militare, attribuiscono all’esecutore finale (il boia, il soldato) il potere di uccidere le persone che non rispondono all’imperativo di adesione all’istituzione pubblica. Il trasgressore viene individuato come colui che, anche involontariamente, ostacola il funzionamento delle regole che qualificano il carattere pubblico dell’istituzione che ha emesso la sentenza di morte.
Si noti che l’eccezionalità del caso qui sopra descritto non è causato da una situazione di imminente pericolo per l’integrità dello Stato o dalla necessità di espansione del medesimo, ma dalla pretesa di obbligare tutte le persone che abitano un territorio ad aderire ad un sistema normativo. Tale pretesa viene espressa da uno o più individui che, in virtù del medesimo sistema normativo, possono decidere per tutti. Si noti infatti che il giudizio sull’imminenza di un pericolo per la collettività altro non può essere espresso che in termini di previsione o predizione. Un’analisi non causa direttamente un’azione, la cui realizzazione passa invece attraverso una decisione. Il pericolo o l’interesse che alcune persone sono chiamate a valutare riguarda in realtà la quantità di opportunità di cui l’istituzione può beneficiare per conservare la sua pretesa.
Ogni istituzione tende quindi a premiare le persone utili all’incremento delle opportunità di cooperazione; nel caso delle istituzioni pubbliche, come si è visto, premi e sanzioni sono distribuiti in base alle capacità di alimentare o ostacolare la pretesa su cui si fonda la cooperazione obbligatoria.
La negoziazione
I problemi di azione collettiva possono essere risolti attraverso l’accentramento delle decisioni o mediante soluzioni decentrate. Nel caso delle istituzioni l’accentramento delle decisioni può essere più o meno intenso. Spesso l’intensità dell’accentramento dipende dalle funzioni che l’istituzione garantisce, ovvero dall’attività che viene sviluppata. Se si vuole vincere una guerra è necessario essere ben coordinati. Al contrario la pianificazione dell’economia non produce buoni risultati. Nelle istituzioni la cooperazione accentrata viene garantita anche nel tempo, attraverso meccanismi utili a far rispettare delle regole.
La negoziazione è una soluzione ad un problema di azione collettiva, ma non prevede alcuna forma di accentramento e di regolamentazione delle azioni, se non quale atto conclusivo del rapporto negoziale. L’esistenza di una trattativa implica la libertà dei soggetti negoziatori. E’ però difficile che nella realtà si verifichi una simile situazione: i contesti negoziali sono in genere costituiti da istituzioni e sicuramente vincolati al rispetto di norme sociali e morali. Spesso l’interruzione di una trattativa non è un’azione razionale, ma motivata da credenze false o da una reazione ad una violazione di una norma considerata indispensabile al proseguimento del rapporto negoziale.
Quando la negoziazione non viene interrotta dà luogo ad accordi che pur essendo frutto di attività decentrate, possono essere interpretati, una volta stipulati, come regole alle quali i soggetti contraenti sono sottoposti. Anche la semplice compravendita è un accordo basato sulla cessione del bene a fronte di una restituzione in valore di scambio.
La differenza tra cooperazione accentrata e cooperazione decentrata non dipende dal tipo di vincolo al quale un individuo è soggetto, ma dal fatto che le regole che si rispettano sono state liberamente e direttamente stabilite dalle persone interessate esprimendo un reciproco assenso.
Si possono individuare gradi diversi di decentramento delle decisioni. Poiché, come si è visto, istituzioni pubbliche e private definiscono le procedure di accentramento, indicando tali procedure è possibile valutare il tipo di rappresentanza che un individuo porta in dote. Specificando nel dettaglio il modo in cui le decisioni collettive vengono prese è possibile qualificare i rapporti simmetrici inter e intra istituzionali. Infatti gli individui coinvolti in una negoziazione possono contrattare per se stessi o in quanto rappresentanti di associazioni, istituzioni, organismi e più in generale soggetti collettivi. Ma poiché ogni rappresentanza collettiva è la conseguenza di un problema di azione collettiva risolta attraverso l’accentramento delle decisioni, e poiché ogni decisione presa dal rappresentante non può essere ridotta alla decisione del soggetto collettivo (che in quanto soggetto collettivo non decide), ma è invece la composizione della libertà dell’individuo che lo rappresenta e delle procedure che titolano l’individuo a rappresentarlo, solo una lettura precisa delle procedure insieme ad una comprensione dei meccanismi psicologici degli individui interessati alla trattativa può qualificare il contesto negoziale. Senza prendere in considerazione questi problemi si finirà per ricorrere a nozioni oscure quali volontà popolare, interesse nazionale, pianificazione sociale.
Discorsi
Con il termine comportamento si intende ogni tipo di movimento del corpo che ha origine all’interno all’agente. Non è un comportamento il cascare per terra a causa di un terremoto. Con il termine azione si intende un comportamento alla cui origine c’è una decisione, un’intenzione alla cui base vi sono desideri e credenze. L’erezione non è un’azione ma è un comportamento.
L’azione sociale è motivata, tra le altre cose, dai discorsi. Essi generano ordine nel mondo dei desideri individuali; desideri che privati del linguaggio restano pulsioni indefinite simili a quelle che possiamo osservare in un neonato (il quale, già nei primi mesi, entra in relazione con i genitori esprimendosi gestualmente, muovendo con ciò i primi passi lungo quel percorso che chiamiamo processo di socializzazione e che si manifesta soprattutto attraverso un linguaggio, anche estremamente povero e primitivo ma condiviso). Se non possedessimo la facoltà della parola il mondo sarebbe molto diverso.
E’ possibile rappresentare la produzione e la condivisione di un discorso come un problema di azione collettiva.
Non cooperare alla formulazione di un discorso significa non condividerlo. Si può rinunciare a dire la propria perché non si possiede una opinione precisa (mi si permetta di evidenziare che nelle culture latine l’individuo tende a dover esprimere una opinione su ogni questione) o perché la discussione si conclude con l’accettazione delle opinioni espresse; in entrambi i casi si coopera all’efficacia del discorso. D’altro canto si può rinunciare alla discussione perché si finisce per non condividere la tesi esposta.
La discussione equivale alla cooperazione decentrata, in quanto libera le opportunità individuali di influenzare la composizione del discorso o del testo finale. Nel grafico la discussione è stata associata alla negoziazione. In effetti si tratta di una forzatura, utile però ad evidenziare il carattere di cooperazione decentrata di ogni buona discussione.
Allo stesso modo si può dire che la definitiva condivisione di un discorso equivale alla cooperazione accentrata.
Si è detto che i discorsi contribuiscono a generare azioni collettive. Tanto le spiegazioni quanto le regole espresse in forma verbale o anche solamente vocale, ed allo stesso modo le esortazioni, gli incitamenti, gli ordini sono elementi indispensabili dell’agire collettivo.
La tabella numero 1 illustra quanto descritto fin qui.
(1 – continua)