giovedì, Dicembre 26, 2024
1.3 C
Milano

Fondatori: Gilberto Oneto, Leonardo Facco, Gianluca Marchi

Sicilia e indipendenza: quattro passi nel caso di antonio canepa

Da leggere

di PAOLO L. BERNARDINI

Amministrative del 2019. Quasi il 50% dei Comuni italiani sono chiamati al voto, in date diverse. Si tratta di 3829 Comuni e ben 30 capoluoghi di Provincia. Come accadde nel 2014, per la maggioranza dei casi le elezioni saranno accorpate a quelle europee. Tuttavia vi sono diverse eccezioni. Ad esempio la Sicilia, 34 comuni, un capoluogo (Caltanisetta). Apertura delle urne il 28 aprile. Ballottaggio il 12 maggio. Anche in Sardegna si va al voto. 29 comuni e due capoluoghi di provincia di importanza fondamentale, Sassari e Cagliari. Qui si vota il 16 giugno. Qual è lo stato di salute dell’indipendentismo in Sicilia e Sardegna? Esiste ancora? Sono tutti morti o si sono tutti adagiati, rilassati, rassegnati?

Pubblico qui, ampiamente rivisto, il mio intervento al III Congresso di Studi Mediterranei che si è tenuto a Tunisi dal 20 al 22 febbraio 2017. Il titolo di questo convegno, di cui conservo ricordi splendidi, era “Sicilia. Identità e insularità mediterranea”. In versione ulteriormente differente il testo è ora in corso di pubblicazione negli atti del convegno stesso. Al termine della quarta parte si trova la bibliografia delle opere citate nelle parentesi quadre. Ho in corso un’edizione commentata dell’opuscolo di Canepa “La Sicilia ai siciliani!”.

Sicilia e indipendenza: quattro passi nel caso Antonio Canepa.

  1. Premesse

In memoria di Nicola Zitara (1927-2010)

Perché i siciliani vogliono essere indipendenti? Perché la ragione e la storia ci insegnano che tali debbono essere e che tali sono stati da molti secoli. Come, per legge umana e divina, nessun uomo può legittimamente essere schiavo di un altro (né può mai prosperare qualora lo diventasse) così nessuna nazione può essere serva di un’altra; e, se lo fosse, verrebbe avvilita, governata senza giustizia né umanità, aggravata dai dazi per l’utile non proprio, ma dei suoi padroni, straziata da leggi fatte a questo medesimo scopo, quindi sarebbe sempre povera, ignorante e disprezzata. Ma come dimostrate che la Sicilia abbia una individualità a sé? Iddio le stese d’ogni intorno i mari per separarla da tutt’altra terra e difenderla dai suoi nemici. La fece così grande di estensione, temperata di clima, fertile di suolo, da bastare non soltanto alla vita di più milioni di uomini, ma anche ai comodi, al lusso, ad ogni godimento, ad ogni industria, ad ogni commercio.

Michele Amari (1806-1889)

La questione dell’indipendentismo siciliano può essere affrontata da diverse prospettive. Quella storica, “oggettiva”, per dir così, è al centro di costante attenzione da parte della storiografia italiana (e parzialmente internazionale), sia divulgativa [Caruso 2004], sia militante [Finocchiaro 2012], sia finalmente scientifica [Battaglia 2014], con particolare attenzione alle dinamiche militari della guerra civile separatistica, tali da mostrare proporzioni degne di un notevole conflitto [Battaglia 2015]. Questo non significa che tutti gli aspetti di una vicenda complessa, e certamente non conclusa, siano stati presi in esame.

Non si tratta di una “vicenda”, peraltro, tra le altre infinite della magnifica, antichissima storia di Sicilia: si tratta, almeno a mio modo di vedere, della vicenda per eccellenza, dello snodo, del cardine, delle dolorose forche caudine della storia siciliana [Renda 2003]. Il fatto che vi sia questo costante interesse significa, se mai, che la storiografia – ed in particolare gli storici più giovani – sono attratti se non dalla prospettiva (politica) dell’indipendenza, quantomeno da tutto quel che l’indipendenza, come ideale, come prospettiva, come possibilità negativa o positiva, porta con sé: ideali utopistici, programmi economici, nuovi stili di vita. Forse, l’intera millenaria storia siciliana può essere vista come tensione dialettica tra indipendenza e servitù. Nella costellazione poi delle “indipendenze mediterranee”, quella siciliana si colloca in una prospettiva privilegiata anche in prospettiva contemporanea: mentre la Libia “inventata” dall’Italia si sta disgregando, mentre la Catalogna si dibatte in una situazione di drammatica incertezza, mentre il Montenegro dimostra di essere, almeno per ora, un cattivo gestore della propria indipendenza, conquistata con un regolare referendum nel 2006 – regolare, ma non dal punto di vista aritmetico, visto che fu fissata dalla Unione Europea una maggioranza al 55% —  mentre Ceuta e Melilla sono in subbuglio, mentre Cipro è alla ricerca di un superamento del suo anacronistico ma funzionalissimo “Muro”, e il Veneto (se l’Adriatico può esser considerato parte del Mediterraneo, cosa non del tutto scontata) vede, proprio mentre sto terminando questo lavoro (aprile 2019), la nascita della prima grande forza indipendentistica unitaria, il “Partito dei Veneti”, nome non troppo originale o promettente (o, dal punto di vista liberale-classico, corretto).

Il ruolo d’avanguardia della storia siciliana nell’ambito di quella italiana è ben noto: ma perfino a livello europeo, sappiamo che la miccia del 1848 fu accesa a gennaio a Palermo: si diffonderà in tutta Europa. Ma anche il moto più circoscritto del giugno 1820 si propagò a Napoli, e poi nel 1821 in Piemonte. In quel caso il focolaio fu Cadice, non Palermo. Ma Palermo fu la prima a recepire le istanze dei marinai spagnoli e quell’impulso costituzionalistico, da un certo punto di vista positivo, ma da un altro devastante, che accompagna la storia europea dal 1789, o dal 1688 della “Rivoluzione gloriosa”, fino almeno alla prima guerra mondiale.  I “primati” siciliani sono tanti anche nella storia recente, non solo in quella ottocentesca (delle ben note “quattro rivoluzioni”, dal 1820 ai fasci del 1893-4, con quella centrale del 1866 che arrivò vicina ad allontanare i Savoia e liberare l’isola, in circostanze molto simili a quelle del 1943-45 [Spataro 2001]), compreso quello di avere uno Statuto regionale su cui occorre riflettere: non solo antecede la Costituzione italiana, ma se interamente applicato, soprattutto per quel che riguarda la fiscalità, ma non solo, porterebbe alla quasi-indipendenza della Sicilia, o comunque ad una autonomia perfino superiore a quella catalana (e vorrei ricordare qui il secolare rapporto tra Catalogna e Sicilia).

La situazione peraltro è analoga in Sardegna (e lo stesso vale, anzi ancor di più in questo caso, per il rapporto con la Catalogna). In questo mio intervento non affronterò la storia dell’indipendentismo siciliano recente e ottocentesco – non basterebbero volumi e volumi per farlo, né peraltro intendo trattare esaustivamente le figura di Antonio Canepa (1908-1945), su cui manca un lavoro monografico, che lo spessore e il fascino personale della figura peraltro esigerebbero: se non altro per la varietà dei suoi scritti, l’eccezionale militanza antifascista, il genio e sregolatezza che ne condizionarono il destino. La riluttanza che la storiografia italiana in generale ha nell’affrontare il tema dell’indipendentismo siciliano si nutre di timori: la Sicilia tra 1943 e 1945 fu davvero molto vicina a diventare davvero indipendente – o piuttosto, a tornare tale – ma di nuovo le infinite componenti della realtà di Trinacria – la mafia, la delinquenza comune, i democristiani e i socialisti, la borghesia cittadina, i resti potentissimi dell’antica aristocrazia agraria, i dipendenti pubblici, il proletariato urbano e agrario, e diverse altre – ostacolarono il processo. Ognuno di loro (rap)presentava istanze diverse, come nel 1820, come nel 1848, in una tragedia collettiva e identitaria che ogni volta di nuovo si ripete. Nel mio caso, solo questioni di spazio mi costringono a limitare il discorso, qui ed ora, al “caso Canepa”, nei suoi aspetti meno noti, e forse più intimi e scomodi.

Sicilia e indipendenza: quattro passi nel caso Antonio Canepa.

  1. Genova, 31 marzo 1983

Sperando che la mia brutalità sia perdonata, passo ora dallo schizzo di un’oggettività storica e storiografica, ad una radicale soggettiva (per utilizzare l’ormai sdoganata locuzione filmica). Genova. 31 marzo 1983. Giorno del mio ventesimo compleanno. Immerso in una primavera di studi e di gioia di vivere, all’Università di Genova, nella gloriosa via Balbi cantata tra gli altri da Stendhal, seguo corsi di filosofia tedesca, letteratura latina (con Francesco Della Corte), logica. Ogni tanto ascolto una lezione di Edoardo Sanguineti. Mi attende il mio primo esame universitario, Storia della Filosofia Antica. Il docente è il severo Antonio Battegazzore. Il tema del corso monografico non potrebbe essere più adatto per un ventenne pieno di energie, intellettuali e fisiche, ed entusiasmo, preda del “cerchio magico” della filosofia di Adorno e ancora ben lontano da ogni tentazione libertaria: il fuoco nel pensiero greco. Mentre festeggio il compleanno con gli amici, quasi tutti iscritti a Giurisprudenza, frequentatori di Balbi 5, il sontuoso palazzo che i Gesuiti a metà Seicento pensarono come luogo di insegnamento e che tale è rimasto, splendido e maestoso, si consuma, non molto lontano da Balbi, appena lì sopra, nell’elegante quartiere ottocentesco di Castelletto, una tragedia umana. Ma anche storica. Muore Antonio Enrico Canepa. Aveva compiuto da poco 43 anni. Era nato – forse un segnale funesto – il 29 febbraio del 1940. Un anno bisestile. Muore per una dose eccessiva di eroina. Ne era da anni dipendente. La sua tragica morte cade come un macigno nella Genova agli albori del socialismo craxiano, della via morbida al socialismo, di cui Canepa, filosofo del diritto, era stato interprete eccellente. Delfino di Craxi, il più giovane deputato socialista e del Parlamento, eletto a 32 anni nel 1972, membro di varie commissioni parlamentari fino al 1976, avvocato, studioso, astro nascente nel panorama genovese, col sogno della cattedra di filosofia del diritto. Ma le vicende personali, alcune non mai chiarite, altre legate proprio all’esclusione dal Parlamento nel 1976 – i deputati liguri sono ridotti da tre a due – lo portano a far uso di eroina. Non ostante venga rieletto nel 1979 e poi ancora nel 1983, l’anno della morte, Canepa è ormai tossicomane. Che cosa lega Antonio Enrico Canepa all’indipendentismo siciliano? Detto altrimenti, perché ne parlo qui? Per quanto la cosa sia sempre stata tenuta sotto silenzio, Antonio Enrico Canepa era il figlio di Antonio Canepa. Non solo i suoi lineamenti fisici evidenziano la discendenza. Ma anche e soprattutto ideologicamente, la matrice socialista di entrambi li accomuna. Per una serie ovvia di motivi, questa è una vicenda di cui si è sempre mormorato, piuttosto che parlato esplicitamente.

L’amico di Canepa junior, Giorgio Rebuffa (1943-), ordinario di sociologia del diritto, amico anche del grande Giovanni Tarello, e futuro parlamentare berlusconiano, offre la prima labile traccia per individuare le origini dello sfortunato deputato socialista: redige, con cura, la voce “Canepa, Antonio”, nel Dizionario Biografico degli Italiani, voce che viene pubblicata nel 1975 [Rebuffa 1975]. Rebuffa ha allora 32 anni come Canepa quando per la prima volta viene eletto deputato. Ma né nella voce, né altrove appare il riferimento ad un figlio: evidentemente la questione era imbarazzante. L’indipendentismo siciliano ha un padre nobile in un genovese purosangue, figlio di Pietro Canepa e Teresa Pecoraro. Anche lui, come il figlio, professore universitario (il figlio non raggiungerà mai la cattedra, per quanto fosse nelle sue ultime ambizioni). Anche lui, come il figlio, socialista (anche se di un socialismo molto più radicale). Anche lui, come il figlio, dotato di smisurata ambizione, terminata tragicamente, anche nel suo caso. Per quanto ci è dato di sapere dagli scritti del figlio, non molti, questo indipendentismo non si era trasmesso sul suolo originario, genovese, in cui certo non poteva allora (né lo può ora), trovare un terreno fertile.

Gli anni Settanta del resto non sono gli anni Quaranta, e l’indipendentismo lascia il posto, come questione fondamentale, in ogni dove in Italia, a quelle connesse alla prima crisi economica dopo i decenni del boom, al terrorismo, all’Europa che cresce. Alla guerra fredda, che raffredda, in omaggio al proprio nome, anche gli spiriti sardi, siciliani, e più che mai quelli settentrionali. La tragedia del 31 marzo 1983 è presto archiviata. Il 4 agosto 1983 Craxi forma il suo primo governo. La stella socialista è in rapida ascesa. L’indipendentismo sembra non esistere più. Ma certamente la letteratura su di esso non sembra esaurirsi, anzi [Nicolosi 1981] [Turco 1983]. Fino a Bossi. E il legame tra i due Canepa non affiora più. Perfino nelle nuove enciclopedie elettroniche: le voci di wikipedia dedicate a padre e figlio non menzionano la parentela. Per il figlio: “Antonio Canepa nacque da una famiglia borghese di origine siciliana”. Cosa falsa, era una famiglia genovese temporaneamente trasferitasi in Sicilia (dove peraltro i genovesi avevano feudi da secoli). Per il padre: nessuna discendenza, legittima o illegittima, viene menzionata. Una vicenda quasi da “due Foscari”: una tragedia del potere, o del potere mancato, in cui però solo un filo sottile, ma terribile, lega padre e figlio (non ostante altri legami apparentemente minori, come la laurea in giurisprudenza). Un padre e un figlio che di fatto non si conosceranno mai. Le colpe dei padri sono ricadute sui figli, un’altra volta? Ma la crisi del 1968, che anticipa quella economia del 1970 e pone di fatto fine ai decenni del boom, lascia affiorare l’indipendentismo siciliano di matrice socialista almeno come prospettiva. E la letteratura riaffiora, se non fiorisce [Ganci 1968], giungendo a riesaminare criticamente tutto il ruolo di Canepa e dell’E.V.I.S. [Gaia 1990] [Gliozzo 1998], ma passando attraverso il ripensamento di Gramsci – la cui relazione col pensiero di Canapa senior è molto complessa – in opere fondamentali che riadattano alla Sicilia degli anni tra 1940 e 1948 la locuzione tipicamente gramsciana di “rivoluzione mancata” (che Gramsci notoriamente applicava al Risorgimento) [Barbagallo 1979].

Sicilia e indipendenza: quattro passi nel caso Antonio Canepa.

III. Randazzo, 17 giugno 1945

Un conflitto a fuoco, uno dei tanti della Sicilia da anni in una guerra civile. Ma a perdere la vita, per le ferite riportate, anche Antonio Canepa, il fondatore dell’esercito indipendentistico E.V.I.S., l’ultimo grande interprete dell’indipendentismo socialista siciliano, professore universitario, uomo di immense energie e difficile carattere, tenuto sott’occhio dal fascismo, dai servizi segreti americani, dalla mafia, da Salvatore Giuliano, che gli sopravviverà ancora cinque anni, per morire a Castelvetrano – patria di Giovanni Gentile e Matteo Messina Denaro insieme, epitome di ogni contraddizione siciliana – nel luglio 1950. Con Canepa muore la concreta possibilità che la Sicilia divenga indipendente, e magari, si trasformi in uno stato socialista, forse del blocco sovietico, difficilmente, per dir così, di modello scandivano. La letteratura sulla sua morte, sui complotti che vi sono dietro, sulle dinamiche del conflitto a fuoco, mai chiarite, è vastissima.

La sua morte segnò il declino anche di quell’indipendentismo meno radicale, ma più meditato, che aveva in Nino Varvaro e Andrea Finocchiaro Aprile i rappresentanti “nobili”: che dopo il 1945 si avviarono ad un mesto declino. La rottura tra i due (Varvaro come Canepa era legato a forti ideali socialisti) avvenne nel 1947. Il MIS – non da molto rinato – fece una triste fine. Varvaro, fallito l’ideale indipendentistico, si iscriverà nel PCI. Andrea Finocchiaro Aprile, un liberale, ebbe un effimero ritorno nel 1953 con l’ADN di Corbino e Nitti, partito quantomai effimero, nato nel 1953, sciolto, dopo infimo risultato elettorale, l’anno seguente. La fine di Antonio Canepa è violenta e misteriosa. Quella del figlio sarà molto più silenziosa, in sordina. Ma certamente essa ha un significato epocale: segna la fine dell’indipendentismo siciliano: era evidente, nel giugno 1945, che troppe componenti, sia locali sia internazionali, erano a favore di una Sicilia forse autonoma, ma certo non indipendente. La tragedia di Randazzo era per tanti aspetti inevitabile, e fu per tanti aspetti conclusiva.

La domanda che si ci pone, dunque, è duplice: la Sicilia potrà mai essere indipendente di nuovo? E perché non lo divenne tra 1943 e 1945, quando c’erano tutte le condizioni perché ciò avvenisse? Sono chiaramente domande troppo generali per essere affrontate qui, dove peraltro, a ben vedere, ho parlato di due fallimenti storici, che in qualche modo si riflettono in due fallimenti individuali, in due immense tragedie: Canepa senior morirà a 37 anni non ancora compiuti; Canepa junior ne aveva da un mese compiuto 43. Conviene invece, in conclusione, prendere in esame il manifesto dell’indipendentismo siciliano, almeno nella visione che di esso aveva Canepa quando, nel dicembre 1942, sotto lo pseudonimo di Mario Turri, pubblicò clandestinamente La Sicilia ai siciliani! [Canepa 1942] opuscolo densissimo che, prima dell’invenzione dei moderni mezzi di diffusione elettronici, era praticamente introvabile. In questo testo si evidenziano pregi e limiti del pensiero indipendentistico di Canepa. Soprattutto, il suo marxismo agrario, che in fondo aveva parecchi punti in comune con lo statalismo fascismo: per ironia della sorte, l’opera in cui Canepa contrabbanda ideali e nozioni comunistiche e socialistiche, in apparenza lodando il fascismo, mostra bene come in realtà totalitarismo rosso e nero siano della medesima pasta: contro la volontà certo di Canepa, che nel suo spirito acceso e goliardico intendeva farsi beffe del regime: ed invece ne metteva a nudo proprio la vera anima, di poco discosta da quella socialistica che egli invece esaltava. Nella tragedia immane del socialismo, anche quello per dir così “dal volto umano”, “indipendentistico” o “liberale”, ribelle o craxiano, bellico o post-bellico, in tempi di estrema indigenza, o in quelli di almeno apparente abbondanza, nella linea sinistra che unisce Genova a Palermo, si consuma la tragedia umana dei Canepa. Ma, a ben vedere, si consuma anche, in questo manifesto del 1942, una tragedia del pensiero. Nell’ultimo paragrafo di questo mio intervento cercherò di dar conto anche di questa tragedia, che, alla fine, è anche la più importante, data l’eternità delle idee, notoriamente contrapposta alla caducità degli uomini.

Sicilia e indipendenza: quattro passi nel caso Antonio Canepa.

IV.“La Sicilia ai siciliani!”

L’opuscolo La Sicilia ai siciliani! rappresenta il testamento politico di Canepa, un manifesto che si legge tutto d’un fiato, pieno di retorica e di passione civile, colmo di dottrina. In esso appare la personalità intera del suo autore: coltissimo, accademico, e allo stesso tempo uomo d’azione, incapace di scindere tutte queste sue anime, o di fonderle in una sola. Per questo, l’opuscolo appare troppo colto e dotto per essere considerato un vero manifesto, e troppo appassionato e ideologico per essere considerato altro da un manifesto. Scritto in fretta e furia, ma non senza aver sotto gli occhi le svariate opere citate, con tanto di numero di pagina, La Sicilia ai siciliani risponde ad una duplice esigenza: invitare il popolo siciliano alla ribellione e alla conquista dell’indipendenza, e fornire una rassegna storica delle tribolazioni subite dai siciliani, e dalla Sicilia, nei periodi di dominazione straniera: la parte storica è infatti preponderante, e le assolute vessazioni subite sotto il fascismo, di cui si parla abbondantemente alla fine dello scritto, sono idealmente equiparate a quelle subite sotto la Repubblica e l’Impero romani. Uno dei primi problemi che emergono dalla lettura dello scritto, è quello riguardo proprio all’indipendenza.

Che sono significa essere indipendenti? Essenzialmente, una sola cosa: autogovernarsi. In questo senso fa propria la grande lezione di Michele Amari, che cita spesso: la Sicilia è un’isola, la stessa geografia vuole che sia indipendente. Ma governata da chi? È possibile essere davvero indipendenti quando, pur avendo la sovranità di stato, il governo è nelle mani, ad esempio, di una dinastia straniera? Come era quella dei Borbone? Un “regno di Sicilia” è senz’altro indipendente dal punto di vista della sua statualità e del riconoscimento come tale nell’ordine internazionale, ma non significa per questo che i siciliani si autogovernino davvero. Le élite possono verosimilmente pensare ad un sovrano “straniero” se costui garantisce loro, pur governando de iure, un autogoverno de facto. Questo punto fondamentale, su cui può arenarsi ogni teoria dell’autogoverno, non viene esplicitamente affrontato da Canepa, anche se implicitamente egli prospetta una Sicilia repubblicana e socialista, dunque non governata certamente da dinastie straniere, né facente capo a nessuna federazione, ma nemmeno confederazione (da notare che in quegli anni si pensava addirittura di rendere la Sicilia uno stato USA, il cinquantunesimo) [Marino 1979].

La questione di una indipendenza senza autogoverno, peraltro, si era posta nel 1848, quando effettivamente Ferdinando di Savoia – un altro rappresentante di una dinastia straniera, fratello minore del futuro re Vittorio Emanuele II, morto molto giovane nel 1855 – era stato invitato a cingere la corona di Sicilia col nome di Alberto Amedeo, dal Parlamento provvisorio siciliano, nei giorni 11 e 12 luglio del 1848. Il 25 luglio vi sarebbe stata la prima sconfitta italiana a Custoza (la seconda, come è noto, ebbe luogo il 24 giugno 1866). D’altra parte, l’affidare il governo di uno stato neonato (soprattutto se nato da rivoluzioni) era prassi comune dall’epoca napoleonica, e ricordava tradizioni ben note nell’Antico Regime. La Grecia aveva notoriamente subito questa sorte. Leopoldo I di Sassonia aveva regnato sul Belgio indipendente dal 1831 al 1865. E poco prima gli era stata offerta proprio la corona di Grecia. La questione non è di poco conto, certamente. Che cosa ne sarebbe stato se il duca di Genova avesse accettato la proposta del parlamento siciliano? L’indipendenza dell’isola sarebbe durata di più? Fino a quando?

L’opuscolo di Canepa ha poi numerosi altri motivi di interesse. Innanzi tutto, come strategia retorica ben nota alla tradizione indipendentistica (o meglio: alle tradizioni indipendentistiche), Canepa cita fonti di “unitari”, oggi si direbbe centralisti, per mostrare come il disagio della Sicilia sia percepito oggettivamente, e non necessariamente solo da coloro che ne auspicano l’indipendenza. Le fonti sono moltissime, dai libri agli interventi parlamentari. Su tutte le fonti giganteggia certo quella di Michele Amari, un gigante di erudizione, arabista, politico, e per breve tempo ministro del Regno. Ma ve ne sono molte altre, minori o minime, che dovrebbero essere filologicamente, pazientemente, ricostruite e verificate (un’edizione scientifica del testo sarebbe quanto mai auspicabile). Molto moderne, inoltre, sono le considerazioni sui “piccoli Stati”. La Sicilia, con 4 milioni di abitanti nel 1942 – oggi sono un milione in più – può definirsi un piccolo stato. Anche qui, Canepa si rifà all’acutezza di Amari: «Se la perfezione politica di uno stato consistesse nella grandezza, la Russia e la Cina sarebbero gli stati più felici del mondo!» [Canepa 1942, 21] Mentre Amari porta ad esempio di stati piccoli la Svizzera (2 milioni di abitanti) e la Grecia (1 milione). Di grande interesse anche il discorso sull’autosufficienza della Sicilia, almeno dal punto di vista agricolo: cosa che rivela sia la natura ancora eminentemente agricola della società siciliana nel 1942 (parzialmente, tuttora), sia la natura predatoria del governo sabaudo, ma soprattutto di quello fascista, in materia fiscale, e non solo.

La matrice socialista del pensiero di Canepa – che poi in qualche modo erediterà il figlio, pur in contesti e situazioni affatto differenti – si rivela ad ogni riga, con riferimenti, tra l’altro, sia a Felice Cavallotti sia a quel Matteotti che era stato grande difensore della “resurrezione” siciliana (il testo cui fa riferimento Canepa è del 1923, un anno prima del delitto) [Canepa 1942, 18]. In conclusione: un indipendentismo repubblicano, mazziniano, “patriottico” ovviamente, antimonarchico, antifascista, legato ad un proletariato agrario ancora alla base di gran parte le rivoluzioni ottocentesche fino a quella d’ottobre. Anche a leggerla con occhi neutrali, la disamina che Canepa fa della storia siciliana dal 1860 al 1942 mette bene in luce una serie di nefandezze, che suscitano ribellioni e rivolte soffocate nel sangue, con regolare periodicità. L’Inghilterra e gli USA erano davvero, sul finire del 1942, a favore dell’indipendenza siciliana? Può darsi. I rapporti tra Sicilia e Inghilterra erano consolidati dai tempi di Nelson; quelli con gli USA da tempi più recenti, ma in qualche modo erano ancora più saldi dei primi. Canepa intratteneva rapporti sia con americani, sia con inglesi. Ma se la Sicilia fosse divenuta indipendente, avrebbe potuto forse entrare nell’orbita sovietica. Questo faceva paura sia agli americani, sia agli inglesi; ma anche a gran parte dei maggiorenti siciliani.

Tra la Scilla del comunismo e la Cariddi dell’appartenenza (in “autonomia”) all’Italia, alla fine scelsero, con assoluta radicalità e coerenza, la seconda strada. Il sogno di Canepa venne spezzato dai carabinieri vicino a Randazzo, sede dal 1943 del comando militare tedesco, e dal 1214 della splendida basilica minore di Santa Maria Assunta, dalla severa facciata grigia, capolavoro del gotico-normanno. Canepa non tenne abbastanza conto dell’elemento religioso, da socialista qual era, nel prospettare il futuro della Sicilia indipendente. Fu uno dei tanti suoi errori. Compreso quello di non aver intuito il potere fondamentale dei latifondisti ancora allora, che avevano peraltro un grande alfiere dell’indipendentismo in Tasca Bordonaro [Tasca Bordonaro 1943]. Un padre e un figlio che forse mai si conobbero sono protagonisti di una tragedia del tutto novecentesca, nel segno di un socialismo per cui forse l’indipendentismo fu solo strumentale – nel caso del padre – e di una sua evoluzione “liberale” che non poté mai, né mai può, nasconderne la vera natura.

Il primato del socialismo sull’indipendentismo (peraltro ampiamente ancora da verificare, nel caso di Canepa: la mia è soprattutto un’intuizione, ancorché abbondantemente suffragata dai testi) mostra bene le contraddizioni e ambiguità non tanto del socialismo, quanto proprio dell’indipendentismo: si può essere indipendentisti senza aderire ad una ideologia, che sia quella collettivistica di Canepa, o quella liberale-classica e libertaria (in senso anarco-capitalistico, non anarco-socialista, ovviamente) di molti indipendenti odierni (molti, ma non certo la maggioranza)? Questione mortale. Ma anche, a ben vedere, vitalissima. Né il padre né il figlio si posero forse mai nella loro radicalità queste domande. In tutto e per tutto, paiono appartenere ad un passato remoto. Le loro ambizioni sono sepolte insieme ai loro cadaveri. Tutto appare ora infinitamente lontano. Eppure, per tanti, troppi aspetti, ora purtroppo, ora per fortuna, a ben vedere, a ben pensare, non lo è.

BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE CITATE

Tasca Bordonaro, L. 1943, Elogio del latifondo siciliano, Palermo: IRES

Canepa, A. 1942, La Sicilia ai siciliani!, s.l. Dicembre 1942 (poi Catania 1944)

https://www.sicilianiliberi.org/images/La-Sicilia-ai-siciliani-2_web.pdf

 

Ganci, M. 1968, L’Italia antimoderata, Parma: Guanda

Rebuffa, G. 1975, v. Canepa Antonio, in «Dizionario Biografico degli Italiani», XVIII, Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana

Barbagallo, S. 1979, Una rivoluzione mancata. Una storia che gli italiani non vogliono conoscere, Catania: Bonanno

Marino, G. C. 1979, Storia del separatismo siciliano 1943-1947, Roma: Editori Riuniti

Nicolosi S., 1981, Sicilia contro Italia, Catania: Tringale Editore

Turco N., 1983, L’essenza della questione siciliana. Storia e diritto 1812-1983, Catania: Centro Studi Storico-Sociali Siciliani

Gaja, F. 1990, L’esercito della lupara, Milano: Maquis Editore

Gliozzo, T. 1998, Antonio Canepa e l’esercito per l’indipendenza della Sicilia. L’E.V.I.S a Cesarò e l’eccidio di Randazzo (1944-1945), San Giovanni La Punta: Boemi Editore

Spataro M., 2001, I primi secessionisti – Separatismo in Sicilia 1866 e 1943-46, Napoli: Controcorrente

Renda, F. 2003, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Palermo: Sellerio

Caruso, A. 2004, Arrivano i Nostri, Milano: Longanesi

Finocchiaro, A. 2012, Antonio Canepa, Messina: Multigraf

Battaglia, A. 2014, Sicilia contesa. Separatismo, guerra e mafia, Roma: Salerno

Battaglia, A. 2015, Separatismo siciliano. I documenti militari, Roma: Nuova Cultura

Correlati

2 COMMENTS

  1. GRAZIE! pur parlando della Sicilia e di due generazioni lontane non nello spirito ma nei luoghi e ancor di più nei temi delle rispettive contemporaneità, è un invito per tutti noi che aspiriamo all’indipendenza a tener presenti e valutare situazioni dei territori e forze interne e internazionali presenti oggi… Certo è che l’Indipendenza dei popoli nella loro terra madre è un’aspirazione irrinunciabile e l’ideale che li fa sopravvivere!

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Articoli recenti