E’ da più di un anno che scriviamo che la ripresa americana non esiste e questa convinzione è stata sempre confermata dalla resistenza delle Federal Reserve ad aumentare i tassi di interesse. E’ vero che nel dicembre del 2015 l’istituto portava il tasso ufficiale dallo zero allo 0.25%, ma come scrivemmo, si trattava di un aumento simbolico per evitare che la banca centrale più prestigiosa al mondo, dopo le tante promesse di aumenti, perdesse credibilità e deludesse le aspettative dei mercati. Sarebbe stata l’ammissione dell’inesistenza della ripresa. «Abbiamo fatto l’aumento per dare fiducia ai mercati» disse il presidente Janet Yellen a titolo di contentino ma poco convinta di quanto facesse. Senza contare che il tasso di interesse rimaneva al di sotto del’inflazione ufficiale del 2%, segnalando pertanto la persistenza della deflazione.
Per quanto irrisorio, fu un aumento intempestivo perché sia l’economia americana sia quella del resto del mondo, Cina in particolare, è gravemente peggiorata e non era affatto difficile prevederlo. Ma in quel periodo il presidente della Federal Reserve prometteva anche altri tre aumenti graduali fino a raggiungere il target di 1.50% entro la fine del 2016.
Ora, il 16 marzo, invece di effettuare un altro degli aumenti promessi, la Yellen, con la scusa del rallentamento dell’economia globale, ha lasciato invariati gli interessi nella fascia compresa tra lo 0,25% e lo 0,50%. Non solo, ma con vari giri di parole ha ridotto pure le aspettative su futuri rialzi. Cosa l’ha induce a mantenere lo status quo? Perché non ha sbandierato le ultime statistiche sugli aumenti di occupazione che dovrebbero testimoniare la famosa ripresa, che, a sua volta dovrebbe giustificare un rialzo dell’interesse? Perché Janet Yellen non è poi tanto stupida. I grandi numeri sull’occupazione non riflettono un’economia in stato di salute, quelli che possono portare ad una crescita vera e robusta. La Yellen sa che i posti di lavoro creati riflettono uno spostamento della forza lavoro dalla fascia a reddito alto e a tempo pieno a quella a reddito basso e part time. I dati sull’occupazione del mese di febbraio del Bureau of Labor Statistics mostrano che il 78% dei nuovi posti di lavoro sono part time di cui l’82% creati nelle industrie low-paying service, cioè di ristorazione, bar e distribuzione commerciale.
In poche parole, più impiegati da McDonald e nei supermercati, più nei bar e nelle imprese di pulizie: un’occupazione associata a redditi che non consentono di farsi una famiglia o di contrarre un mutuo per la casa. Nello stesso tempo, si sono persi i posti di lavoro a tempo pieno in tutti quei settori della produzione capaci di creare beni e servizi da esportare. E’ finito il sogno americano. I redditi della classe media si sono gravemente ridotti e gran parte della popolazione è costretta ad accettare il part time. Per la prima volta la storia degli Stati Uniti registra un outsourcing di occupazione qualificata verso altri paesi. Quindi i posti di lavoro che oggi si creano sono quelli a bassa produttività, a spese di quelli ad alta produttività. Ma, se un’impresa rimpiazza un lavoratore a tempo pieno con due lavoratori part time, per le statistiche americane c’è un guadagno. Due camerieri contano di più di un ingegnere! Come in Italia, anche le statistiche americane sono fuorvianti perché ignorano completamente la qualità dei dati. Ma l’uomo della strada americano non vuole più farsi prendere in giro né dalle statistiche né dalla propaganda dei media sulla ripresa e il successo di candidati outsider come Donald Trump e Bernie Sanders è dovuto proprio al fatto che hanno portato in primo piano il vero problema: la deindustrializzazione del paese. E’ la gran massa di disoccupati e sottoccupati, stufa dei giochi di prestigio dalle élite al potere ad affollarsi attorno a questi due candidati che, proprio perché estranei all’establishment, sono in grado di capire i loro problemi.
Ma, per Janet Yellen, di forte orientamento democratico, ammettere la recessione non è facile perché minerebbe la campagna di Hillary Clinton in corsa alle elezioni presidenziali per prendere il testimone da Barack Obama. Il quale audacemente ha affermato che «Chiunque sostiene che l’economia americana è in declino, spaccia balle». Come se certe affermazioni cambiassero la realtà. Sfortunatamente per lui sempre più americani credono che le balle ormai provengano proprio dalla Casa Bianca. Obama è il primo presidente della storia americana sotto il quale il prodotto lordo del paese non ha mai raggiunto il 3%.
Se la Yellen continua ad ignorare i segnali di recessione corre il rischio di provocarne una prima delle elezioni. Ciò favorirebbe i candidati repubblicani come un Donald Trump o un Ted Cruz nessuno dei quali, se eletto, la rinominerebbe come presidente della banca più potente del mondo. Farebbe bene a non dimenticare che fu proprio il problema economico, ossia la conseguenza della bolla dei mutui fatta esplodere sotto gli occhi di George Bush dal predecessore Alan Greenspan a far eleggere Obama contro l’avversario repubblicano, John McCain.
Attenta Janet, Donald Trump potrebbe cavalcare una simile ondata di sdegno.
E l’inflazione core rilevata, a patto che siano dati poco addomesticati, attorno al 2,3% come si inseriscono in questo quadro.
Per certuni è una specie di invito per la yellen ad aumentarli i tassi.