di GIANLUCA MARCHI
Ohibò, lunedì abbiamo scoperto che quasi un cittadino su tre di questo sgangherato paese è favorevole all’indipendenza della propria regione dall’Italia. Per la precisione sono indipendentisti il 31% degli intervistati nella consueta rilevazione settimanale dell’istituto Demos e pubblicata su Repubblica con l’analisi per professor Ilvo Diamanti. C’è da stare sicuri che non può essere un risultato “taroccato” a sostegno dell’indipendentismo, vista la tribuna che ha diffuso l’analisi: il giornale fondato da Scalfari non è mai stato di simpatie separatiste e nemmeno federaliste. E ciò nonostante il giorno seguente lo stesso Diamanti sia tornato a spiegare che “indipendenza non significa secessione, bensì minore dipendenza, cioè maggiore autonomia”, rendendosi conto dello “scandalo” suscitato dalla sua analisi.
Restando ai dati pubblicati, qualche ragguardevole sorpresa viene prima di tutto dalla distribuzione territoriale di questo sentimento secessionista. Se la prima posizione del Veneto con il suo 53% di indipendentisti appare scontata, e se non ci fanno saltare sulla sedia nemmeno la seconda e la terza piazza, appannaggio delle isole, rispettivamente Sardegna (45%) e Sicilia (44%), già la quarta piazza del Piemonte con il 37% ci colpisce favorevolmente, perché è sempre stata considerata la regione più debole del trittico del Nord dove è nato e cresciuto il fenomeno leghista (parlo della Lega delle origini). Ma il dato più clamoroso è quello della quinta posizione detenuta ex aequo, con il 35% di indipendentisti, dalla Lombardia e nientepopodimeno che dal Lazio. I numeri laziali vanno al di là di ogni immaginazione, e dipendono probabilmente dalla rivolta delle province periferiche verso Roma capitale, ladrona e che tutto si piglia. Ma persino il dato lombardo lascia piacevolmente sorpresi, perché da anni vedo la mia regione parecchio addormentata sotto questo punto di vista, soprattutto se paragonata all’effervescenza veneta, ancorché scomposta e col rischio di rimanere fine a se stessa. Non fanno una piega, invece, i dati in discesa degli indipendentisti nelle regioni meridionali (ma poi non così bassi) e in quelle rosse per eccellenza, a eccezione della Toscana, che ha una sua storia in questa materia.
Dunque, noi indipendentisti non saremmo affatto quell’armata brancaleone di sfigati che troppo spesso diamo l’impressione di essere, bensì un ragguardevole esercito che, se dovesse crescere ancora un po’, potrebbe anche puntare a un risultato insperato: smontare l’Italia e rifarla sotto forma di confederazione sull’esempio della Svizzera? Sarei cauto al riguardo. Rilevazioni come quella di Demos a mio parere sono molto “teoriche”, nel senso che possono subire l’influenza del vento indipendentista che spira in diverse parti d’Europa, ma che soprattutto vengono effettuate in assenza di una decisione reale da assumere in occasione di un voto. In altre parole sono come degli esperimenti in vitro, che non è detto funzionino allo stesso modo una volta calati nella realtà. Per dirla nuda e cruda: sono convinto che molti di coloro che si dichiarano oggi a favore dell’indipendenza della propria regione in un sondaggio, cambierebbero atteggiamento il giorno in cui dovessero essere chiamati a decidere se lasciare il certo per l’incerto, anche se il certo è il disastro italico che abbiamo di fronte. Vorrei sbagliarmi, ovvio, ma ho questa netta sensazione dettata da qualche esperienza nel campo e anche da qualche semplice considerazione. Una su tutte: ditemi come si coniuga ad esempio la maggioranza assoluta di indipendentisti nel Veneto con il recente successo elettorale del Pd alle ultime Europee, essendo i democrats il partito meno indipendentista di tutti? Si ritorna cioè alla seconda spiegazione data di Diamanti: “indipendenza non come secessione, ma come maggior autonomia”, giocando sempre sulla sovrapposizione confusa fra indipendentismo e autonomismo, che invece sono due cose diverse.
Sul fronte opposto non provo invece sorpresa nell’apprendere che gli indipendentisti sono 3 su 4 fra gli elettori della Lega Nord. Ho sempre pensato, e scritto, che nella base e nell’elettorato leghista i secessionisti sono la vera maggioranza, sottoposta però a una dirigenza, parlamentare e amministrativa, assai poco indipendentista (vedasi il penultimo segretario e un sindaco/segretario nazionale tanto celebrato dai media). E questa rimane una delle ambiguità del movimento guidato con grande efficacia da Matteo Salvini, essendo dato da tutti i sondaggi in grande spolvero e collocato intorno al 10% nelle intenzioni di voto.
Personalmente continuo a vedere con perplessità il progetto salviniano di trasformare la Lega in un partito nazionale di stampo lepenista, la cosa non mi convince affatto perché non trovo correlazione con il primo articolo dello statuto del Carroccio, quello che ancora parla di indipendenza della Padania come progetto finale. A meno che il segretario federale abbia subodorato prima di altri, e persino degli studiosi, la forza reale di questa magmatica massa indipendentista presente in Italia oltre ogni previsione e punti a farla convergere dietro le insegne del movimento che si appresta a cambiare e rinnovare sperando di avere, nel futuro Parlamento italico, quella forza dei numeri che la Lega non è mai riuscita ad ottenere. A me sembra uno scenario improbabile, ma se così fosse davvero, tanto di cappello… e tuttavia prima o poi questa evoluzione andrebbe raccontata e spiegata.
Concordo con Lei sul fatto che le rilevazioni possano risultare puramente teoriche.
Di fatto la gente in piazza è molto più ‘arrabbiata’ e queste percentuali raccolte spannometricamente, ribadisco, in piazza sono nettamente superiori, almeno in quelle di Lecco e di Bergamo!
La pesante crisi economica spinge la gente a prendere, sempre più rapidamente, in considerazione proposte d’urto, anche le più estreme, pur di cercare vie di uscita da questa melassa politica che non produce benessere, anzi sembra assecondarne il rapido declino.
Poi c’è quella fetta persone che in piazza non ci và e per l’età o modo vecchio di pensare è refrattaria a qualsiasi cambiamento vissuto per ora come estremo o pericoloso.
Tutto giusto ma dissento totalmente dall’obiettivo di creare un’Italia confederata, sul modello della Svizzera. Indipendenza non significa autonomia ma nemmeno federalismo o confederalismo. Chi si sente italiano e vuole “solo” risistemare l’Italia su basi federali ha un’idea rispettabilissima e del tutto preferibile all’esistente. Ma indipendenza padana, o lombarda, o veneta, significa puntare alla creazione di uno stato padano, lombardo o veneto, del tutto indipendente e nuovo soggetto di diritto internazionale. Non si scappa.
Sto sognando? Non credo perché non sto dicendo che l’indipendenza la si possa ottenere oggi. Occorrerebbero metodi drastici che non sono realistici ed umanamente non auspicabili (qualcuno mi contesterà su quest’ultima affermazione). Se la secessione, allo stato attuale, è un’utopia, l’Italia confederata è altrettanto irrealizzabile. Utopia per utopia, meglio darsi l’obiettivo della piena indipendenza.
E’ invece realistico puntare ad un’Italia federale (meglio, federale a geometria variabile). Come mezzo, non come fine. Conquistando maggiori spazi di libertà, economica e identitaria, negoziando con il governo centrale. E, contemporaneamente, perseguire una politica di difesa degli interessi economici dei popoli padani e, per me soprattutto, una decisa politica identitaria, che smonti l’idea che molti padani hanno di essere per natura parte della (inesistente) nazione italica. Rendendo sempre chiaro che il nostro obiettivo è l’indipendenza e non ci sentiamo italiani. Per poi, al momento opportuno, passare all’azione, sul modello scozzese o catalano.
Non sarebbe un’utopia ma una politica possibile per un serio movimento indipendentista.
Chi crede nell’esistenza di una nazione italiana e vuole, mediante il federalismo, valorizzarla, faccia pure. Ma se la nazione è un plebiscito di tutti i giorni, tenga presente che a sud di Roma non esiste alcuna mentalità volta all’autogoverno e nessuna tradizione di orgogliosa rivendicazione di libertà locali. Un sistema svizzero richiede tutto questo. Se, come io penso, esistono criteri oggettivi per determinare una potenziale nazione (poi, certo, è questione di scelta il realizzarla), tenga presente che, antropologicamente, non esiste alcuna nazione italiana.
Qualcuno mi chiamerà razzista biologico ma penso che il problema dell’Italia siano le diversità antropologiche in essa esistenti. E non parlo di antropologia fisica (sebbene ci siano anche quelle differenze, piaccia o no ai politicamente corretti) ma di mentalità e retaggio storico. Lo sapevano molti protagonisti del Risorgimento, molto meglio di alcuni autonomisti che si sforzano di essere politically correct.
La Padania potrebbe (anzi dovrebbe) essere fondata su un modello confederale (se, legittimamente, non si vuole invece puntare sulla piena indipendenza delle nazioni padane che però, essendo a loro volta articolate, richiederebbero un’articolazione almeno federale). Un’Italia confederata non funzionerebbe.
Al massimo (so che su questo molti non concorderanno) si potrebbe accettare una confederazione “italiana” che comprendesse i territori del Regno d’Italia medievale, o del Regno dei Franchi e dei Longobardi in Italia, o della civiltà comunale “italiana”. Ma dovrebbe essere una confederazione molto lasca e del tutto rispettosa delle differenze etnoculturali al suo interno (specialmente, ma non solo, connesse alla Linea Gotica).
Ci sarebbe una cultura civica comune, come insegna Putnam, dovuta ad un retaggio medievale largamente comune. Ma anche ad un retaggio etnico, non solo dovuto all’apporto dei Longobardi ma risalente a tempi molto più remoti. Lo diceva anche Gianni Brera. Che, sostenendo che a Siena fossero arrivati i Senoni diceva una sciocchezza, ma coglieva correttamente il fatto che la frattura tra “Italia” europea ed Italia mediterranea corre più a sud della Linea Gotica ed è una frattura non solo culturale ma etnica.
Al di fuori di questa ipotesi (che Bossi, pur approssimativo e sgrammaticato, aveva correttamente proposto, parlando di Nord non padano, ma sbagliando ad inglobarlo nella Padania) non vedo fattibili soluzioni italiane confederate. E non entusiasmerebbero nessuno, nemmeno come idea guida o utopia. Una tale confederazione sarebbe legittimamente definibile come Lombardia (sebbene legittimamente potrebbe adottare il nome di Italia, che ormai però porta con sé significati tali per cui è opportuno lasciarlo ai mediterraneisti).
Il sondaggio non mi sorprende: di fronte al 50% del Veneto, il Piemonte è il secondo “Cantone” più indipendentista, più della Lombardia.
Tenete conto che il Piemonte è diviso in due elettoralmente: da una parte l’area torinese, piena di immigrati e coloni italiani, dall’altra il “vero” Piemonte quello degli autoctoni. I risultati della Lega, forte fuori Torino, debole dentro Torino ne erano la prova. Paradossalmente se si permettesse di votare per l’indipendenza per provincia e non per Regione, tutto il Sud del Piemonte sarebbe favorevole in maggioranza all’indipendenza.
Guardi, io vivo nel sud del Piemonte e tutti ‘sti indipendentisti non li vedo…
Ci sono tanti, ma tanti comunisti – si può dire? – ed è vero: a loro dell’italia unita frega ben poco.
Oggi come settant’anni fa…
Il guaio è che, da qualche anno a questa parte, i dispacci del politburo grondano retorica patriottarda, e di un bel contrordine compagni nemmeno l’ombra…
Comunque sono inaffidabili, e la percentuale attribuita al Piemonte è da prendere mooolto con le molle.
Io ci vedo un “assist” per Chiamparino, il quale fino a qualche tempo fa veniva dipinto come un federalista della madonna.
Direttore, devo però aggiungere un’altro aspetto: è vero che i favolrevoli potrebbero anche cambiare idea, ma questo 35% è un valore di base, di partenza, che si concretizza in assenza di una campagna indipendentista seria: chi ha seriamente parlato di indipendenza e di secessione fino ad oggi? La lega nella seconda metà degli anni novanta, ma possiamo ben dire che sono quasi 15 anni che sull’argomento di fatto si tace, salvo poche lodevoli realtà di modeste dimensioni, eppure si parte dal 35%. Di conseguenza se si dovesse affrontare la questione come in Scozia, con 2 anni di tempo per prepararsi ad un referendum, quel 35% di base potrebbe ben salire!!!!
Sono in parte d’accordo, ma non sarei così sicuro nel dare questo 35% per acquisito al 100%
Salvini punta a neutralizzare il rischio secessionista con ogni mezzo. il 28 ottobre si è scatenato anche il fine stratega Borghezio con una visita guidata in compagnia di Casa Pound a una scuola che ospita immigrati, alcuni dei quali rifugiati politici. Come sempre ottimo lavoro da parte di chi, da 25 anni, squalifica sul nascere ogni tentativo di dare dignità e credibilità al pensiero indipendentista e antistatalista. Chi continua a dare credito alla Lega Nord come movimento indipendentista o ci è, o ci fa, o cerca lavoro.
http://ilmanifesto.info/blitz-di-borghezio-e-casa-pound-nella-scuola-degli-immigrati/
o ci è o ci fa… che “padanissima” espressione… la prima volta che l’ho sentita me l’ha detta una professoressa romana e io son rimasto li a cercar di capire cosa volesse dire, alla fine ho concluso che era un’altra lingua, un’altra cultura…
Che la sua cultura e la mia siano ben diverse mi pare che ce ne siamo accorti da tempo. Lei se ne compiace e io faccio lo stesso.
Sottoscrivo.
SB: “Carissimo, riporta alla casa del padre il voto fasciopecoreccio, ché nel 2007 ho fatto la cazzata di assorbire an e adesso mi ritrovo senza specchietto per allodole nazionalpopolari”
MS: “Comandi!”