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Stato è violenza, anche quando la chiamano “giustizia”

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di JACQUES ELLUL

Ho dimostrato a lungo altrove che ogni Stato è fondato e sussiste unicamente sulla e attraverso la violenza. Mi rifiuto di fare la classica distinzione tra forza e violenza.

I giuristi hanno inventato che la «forza» è quella dello Stato quando usa la coercizione e persino la brutalità, mentre solo individui o gruppi non statali (sindacati, partiti) userebbero la violenza: è una distinzione totalmente ingiustificata.

Lo Stato si istituisce attraverso la violenza: rivoluzioni americana e francese, Stati comunisti, Stato franchista, ecc. C’è sempre una violenza in principio e lo Stato diventa legittimo quando gli altri Stati lo riconoscono (so che non è il criterio abituale di legittimità, ma è l’unico serio!). Oppure, quando lo si riconosce? Quando il regime è durato abbastanza: in principio ci si scandalizza per la violenza che ne è all’origine e poi ci si abitua. Nel giro di alcuni anni si riconosce lo Stato comunista, di Hitler, Franco, ecc. come legittimi.

Come si mantiene il governo? Solo attraverso la violenza. Deve eliminare i suoi avversari, creare nuove strutture; tutto ciò è una questione di violenza. E anche quando la situazione sembra normalizzata, le autorità possono vivere solo esercitando violenze successive. Qual è il limite tra la brutalità della polizia e un’altra? Il fatto che sia legale? Ma sappiamo quante leggi possono essere fatte anche per giustificare la violenza? Il miglior esempio è ovviamente il processo di Norimberga: era necessario sopprimere i capi nazisti. Era normale, era una reazione di violenza contro la violenza. Una volta sconfitti i violenti, ci si vendica. Ma gli scrupoli democratici hanno preteso che non si trattasse di violenza, bensì di giustizia. Ora, nulla condannava legalmente ciò che i capi nazisti avevano fatto: allora è stata fatta una legge speciale, sul genocidio, grazie alla quale è stato possibile condannare in buona coscienza, come un tribunale serio, dicendo che era giustizia e non violenza. Reciprocamente, si sapeva perfettamente che Stalin era pari ad Hitler quanto a genocidi, campi di deportazione, torture, esecuzioni sommarie… solo che non è stato sconfitto: non si poteva quindi condannarlo. Semplice questione di violenza.

E al suo interno, l’azione dello Stato non è violenta? La grande legge, la grande regola dello Stato è di far regnare l’ordine. Non è l’ordine legale che conta innanzitutto, è l’ordine nella strada. Non esiste costrizione fedele alle leggi, sottomessa alla giustizia, se non quando le situazioni non sono troppo difficili, quando i cittadini sono obbedienti, quando l’ordine regna di fatto. Ma non appena si è in crisi e in difficoltà, allora lo Stato si scatena e fa come per Norimberga, fabbricando leggi speciali per giustificare la sua azione che di per sé è pura violenza. Sono «leggi eccezionali» in uno «stato di emergenza», nozioni che esistono in tutti i «paesi civilizzati». Siamo davanti ad una parvenza di legalità che ricopre una realtà di violenza. E ritroviamo tale rapporto di violenza a tutti i livelli della società. Forse che il rapporto economico o il rapporto di classe sono qualcosa di diverso dai rapporti di violenza? Bisogna davvero accettare di vedere le cose per come sono e non come le immaginiamo o le desideriamo!

Il sistema competitivo ipotizzato dalla famigerata libera impresa, in cui per così dire «vince il migliore», non è in definitiva una «lotta al coltello» economica, espressione di pura violenza che le leggi non riescono a temperare, dove i più deboli, i più morali, i più delicati sono necessariamente perdenti? La critica del sistema di libera concorrenza come mezzo di violenza è essenziale. Ma non dobbiamo credere che, in compenso, la pianificazione impedisca la violenza: perché in questo caso è la violenza dello Stato ad imporre implacabilmente la propria legge agli imprenditori. Basta vedere, anche in Francia, a qual punto la pianificazione implichi un necessario calcolo di ciò che deve essere sacrificato: quella categoria di produttori, quel tipo di sfruttamento, tutto viene spazzato via in base ad un calcolo economico. E non è minor violenza solo perché il piano che prevede questi olocausti al dio economico è votato da un parlamento e diventa legge.

Lo stesso dicasi a proposito del rapporto di classe. So bene che un’intera scuola sociologica negli Stati Uniti nega l’esistenza delle classi sociali, ma penso che ciò implichi rifiutare di vedere la realtà a causa di un metodo pseudo-scientifico, e si comincia ad accorgersene. Ora, non c’è dubbio che tra le classi esista un rapporto di concorrenza violenta per decidere chi dirigerà una nazione, per afferrare una «fetta di torta» (il reddito nazionale) più grande! Come potrebbe essere altrimenti?

Si può sperare che la classe inferiore, gli operai, gli impiegati, i contadini accettino senza protestare la direzione della classe superiore, sia essa borghese, capitalista, burocratica o tecnocratica? E in ogni caso, certe classi inferiori non hanno il desiderio di prenderne il posto o di accedervi! Non voglio riprendere la «teoria» generale della lotta di classe, non è a questo che mi riferisco, ma al rapporto di violenza che nasce appena esiste una gerarchia. Violenza del superiore che può essere sia materiale (la più elementare che provoca reazioni morali ostili) sia psichica e spirituale quando il superiore utilizza mezzi morali incluso il cristianesimo, per ricondurre l’inferiore alla sottomissione e infondergli uno spirito di asservimento, che è la violenza peggiore di tutte.

Il comunismo non agisce diversamente con i suoi metodi di propaganda. La violenza psicologica, chiamata in Francia «terrorismo psicologico», è la più grave ed è sempre grazie ad essa che una gerarchia può mantenersi. Ma la classe inferiore, quando cessa di essere addomesticata (alla stregua di animali da compagnia), coltiva allora risentimento, invidia, odio, fermenti di violenza: Sorel l’ha analizzato perfettamente. Da qualsiasi parte ci giriamo, ovunque troviamo la violenza nella società: è lo stato naturale. Hobbes l’aveva capito e analizzato perfettamente quando, partendo dalla necessità di proteggere l’individuo dalle violenze, ha finito con l’ammettere che solo uno Stato onnipotente, illimitato e che usi esso stesso la violenza può proteggere l’individuo dalle violenze sociali.

Potrei qui fare appello a tanti di quei sociologi e filosofi moderni da formare una bibliografia schiacciante; ne cito due molto famosi e assai diversi. Paul Ricœur: «La non-violenza dimentica che ha contro di sé la storia». Perché la storia è il prodotto della violenza. Eric Weil: «Per elevare l’individuo al di sopra della sua individualità, non c’è altra forza che la guerra… Sul piano della realtà, il bene non ha forza: ogni forza si trova dalla parte del male».

Posso attestare che questo è il bene della realtà. Ma è più piacevole, più facile, più consolante, più morale, più pietoso credere che la violenza stia accuratamente nascosta in un angolo, correttamente repressa, che la dolcezza e il bene trionferanno sempre… Purtroppo, questa è un’illusione.

 

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