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Sul concetto di inflazione c’è molta confusione

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INFLAZIONEdi MATTEO CORSINI

Ogni volta che Noah Smith si occupa di politica monetaria e inflazione sembra di sentire un pappagallo ripetere quello che dice Paul Krugman (il quale, non a caso, è una delle fonti di ispirazione di Smith). Che ha detto stavolta? “Altri hanno ripiegato rivendicando che sono i prezzi degli asset, non quelli al consumo, a mostrare “inflazione” – come se ci si dovesse preoccupare dell’aumento dei prezzi delle azioni”.

Sul concetto di inflazione c’è indubbiamente una notevole confusione. Da diversi decenni l’inflazione viene identificata come crescita generalizzata dei prezzi al consumo. Di solito viene misurata dalle variazioni ponderate dei prezzi di un paniere di beni ritenuti (con una certa dose di arbitrarietà) rappresentativi di ciò che viene consumato abitualmente in un determinato periodo di tempo.

Questa è la nozione alla base del mandato assegnato alle banche centrali nel loro obiettivo di mantenimento della stabilità dei prezzi, che poi viene solitamente intesa non già come una variazione tendenzialmente pari a zero dell’indice, bensì in una crescita attorno al 2 per cento annuo.

In origine, però, l’inflazione era definita come crescita dell’offerta di moneta non coperta da oro (o altro metallo usato come moneta). In pratica le banconote e i depositi bancari erano sostituti della moneta vera e propria, per cui una loro emissione in eccesso rispetto alle riserve di moneta (l’oro, appunto) rappresentava l’inflazione, il cui effetto era quello di ridurre il potere d’acquisto dell’unità monetaria.

Nei sistemi monetari fiat attualmente in vigore, l’inflazione è stata di fatto istituzionalizzata, ed è generata da manovre monetarie espansive da parte delle banche centrali, oltre che dall’espansione dovuta al moltiplicatore dei depositi nei sistemi bancari a riserva frazionaria (altra fonte di inflazione istituzionalizzata).

In base alla definizione originaria, la crescita dei prezzi (al consumo, ma non solo) è una conseguenza dell’inflazione. Ma se si considera inflazione la crescita degli indici dei prezzi al consumo, è ben più che probabile assistere a lunghi periodi di politiche monetarie espansive (quindi inflazionistiche secondo la definizione originaria) senza che a ciò corrisponda una crescita dei prezzi al consumo. All’apparenza, quindi, la politica monetari espansiva sarebbe compatibile, anche per lunghi periodi, con l’assenza di inflazione.

Va detto che in assenza di politiche monetarie espansive al posto della crescita moderata degli indici dei prezzi al consumo potrebbe verificarsi una diminuzione più o meno consistente degli stessi, per fattori dei quali non mi occuperò in questa sede.

Ciò che mi pare opportuno evidenziare, tuttavia, è che valutare gli effetti di una politica monetaria espansiva limitandosi a seguire l’andamento degli indici dei prezzi al consumo ha conseguenze disastrose. Senza andare troppo indietro nel tempo, la storia del primo decennio di questo secolo dovrebbe essere eloquente in tal senso.

E’ allora indubbiamente vero che paventare una crescita stratosferica dei prezzi al consumo in una fase in cui la politica monetaria espansiva contrasta una fase post scoppio di una bolla non ha senso. Ma in economie altamente finanziarizzate come quelle odierne gli effetti di una politica monetaria inflattiva sono ben visibili, appunto, sui prezzi degli asset finanziari e reali.

Lo erano anche nel periodo 2004-2007, quando la Fed alimentava la bolla creditizia-immobiliare e tutto sembrava andare bene perché i prezzi al consumo crescevano moderatamente. Già all’epoca quelli che oggi ritengono che la politica monetaria non stia preparando un’altra crisi erano “sereni”. Come è andata a finire è storia nota. Continuare ancora oggi, come fa Smith (tra l’altro in folta compagnia) a sottovalutare i rischi a me pare assurdo.

Probabilmente recuperare la definizione originaria di inflazione aiuterebbe a inquadrare meglio il problema. Anche se non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.

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