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Troppo Stato, troppa Italia

Da leggere

di GILBERTO ONETO

Ricominciano ad acchiappare amministratori e funzionari con le mani nei cassetti. Conoscendo come funzionano le cose negli uffici pubblici e dando credito a Lombroso c’è solo da aspettarsi che le reti riprendano a riempirsi di tanti pesci piccoli e di qualche raro pesce grosso. Chi si era illuso che le cose fossero cambiate si dovrà ricredere. Ma si devono ricredere anche quelli che pensano che le cose possano cambiare.
Il problema non sta infatti nella qualità di chi gestisce il meccanismo della cosa pubblica italiana ma è insito nel meccanismo stesso. Innanzitutto (ed è un male universale) perché il meccanismo muove troppe risorse, si occupa di troppe incombenze e, di conseguenza, fa ballare troppi soldi. E – si sa – l’occasione fa l’uomo ladro. Figuriamoci cosa fa di quei funzionari e politici che magari hanno la radicata vocazione al manolestismo. E poi perché il meccanismo dell’Italia unita ha un DNA a forma di pizzo e di bustarella.
Intendiamoci: ladri e furbacchioni ci sono e ci sono sempre stati dappertutto in ragionevole quantità fisiologica. C’erano anche negli stati preunitari sia pur con valori statistici non sempre uguali. Le pubbliche amministrazioni del Lombardo-Veneto e della Toscana erano famose per correttezza e onestà e i rari balordi avevano vita dura. Nella Serenissima gli amministratori erano sempre sotto strettissimo controllo e nessuno era al di sopra di ogni sospetto: tutti i Dogi venivano regolarmente processati dopo morti e il loro operato ripassato con la lente di ingrandimento: eventuali imbrogli o paciocchi venivano fatti pagare agli eredi.
L’Italia unita ha invece mostrato le sue più intime vocazioni fin dai suoi primi vagiti: la cassa della spedizione dei mille è sparita a Talamone, gli ufficiali borbonici venivano comperati in sonanti piastre turche e le finanze del Regno delle Due Sicilie sono state dilapidate nel giro di poche settimane da una vorace congrega di patrioti sotto gli occhi innocenti ma un po’ troppo distratti di Garibaldi, che Del Boca ha definito “un onesto babbeo”. La contabilità è scomparsa nel Tirreno assieme a Ippolito Nievo che la portava in Piemonte. Primi misteri di un paese fatto di trusi e di mezze verità. La patriottica paciada è poi continuata alla grande: i trucchi della Banca Romana, i Savoia che si arricchivano con gli appalti ferroviari, i beni ecclesiastici svenduti sotto costo agli amici. Si prendevano e davano soldi per distribuirsi seggi elettorali, per fare le guerre con l’uno o con l’altro o per non farle, si è rubato sulle commesse militari, pescecani si sono arricchiti su mucchi di cadaveri. Tutti quelli che dall’estero avevano favorito la formazione del nuovo Stato lo avevano fatto per difendere interessi più o meno nobili e si erano affidati al peggior affarismo nostrano: una cambiale che hanno presentato all’incasso nel 1915. Mussolini ha preso soldi dai Francesi, i democristiani dagli Americani, i Comunisti dai Sovietici.
L’oro di Dongo, che sparisce, inaugura una nuova brillante stagione fatta di terremoti, casse per il Mezzogiorno, privatizzazioni, tangentopoli e via fischiettando l’inno di Mameli.
Subito sono le riserve auree di Napoli che spariscono, è l’invasione italiana che mette in ginocchio l’economia meridionale. Su questo certi meridionalisti costruiscono la giustificazione morale per la successiva rapina della Padania: i Padani devono – secondo questi fini intellettuali – risarcire il Meridione per i furti subiti nei primi decenni dell’unità e possono farlo solo trasferendo una quantità enorme di risorse a chi si è trovato impoverito dall’unità.
Così i Padani, che della prigione dell’unità sono le prime vittime devono continuare a mantenere l’altra metà dei detenuti.
Oggi la Padania è vittima del troppo Stato (che crea l’occasione ad allungare le mani) e di troppa Italia (che ci mette la giustificazione e, qualche volta, anche la vocazione).
Certo sarebbe già un passo avanti riuscire ad avere meno Stato, fare girare meno soldi negli uffici pubblici, creare meno occasioni, costringere i funzionari e i politici a gestire cose di grande importanza sociale ma di nessuna consistenza economica.
Ma non si può toccare l’essenza stessa di questo Stato senza toccare l’idea di Italia: la greppia statalista trova giustificazione nel patriottismo italiano e la retorica tricolore trova protezione e sopravvivenza nel verminaio della burocrazia, con cinque milioni di impiegati pubblici e con le loro famiglie che vivono di tricolore, con legioni di finti invalidi che vivono di tricolore, con falangi di politici e di alti burocrati che vivono di tricolore, a partire dai 105 milioni mensili di qualcuno al molto meno di tanti altri, cui peraltro non si chiede in cambio granchè. Non si smagrisce lo Stato se non si toglie il paravento dell’Italia; non ci si libera dell’Italia se non si abbatte tutto l’ambaradan statalista.
Lo Stato non si può riformare fintanto che è italiano e ce ne stiamo dolorosamente accorgendo. Non si blocca l’antica truffa pelasgica delle tre tavolette facendosi accompagnare da amici integerrimi e oculati. Lo si può fare solo rovesciando il tavolo. È un gesto che richiede il concorso di tutti gli onesti, di quelli che vivono del proprio lavoro e a proprio rischio, al di sopra di ogni divisione ideologica. Il partito dell’onestà e della libertà è trasversale, interessa una intera comunità umana reale. Bisogna ricostruire una società in cui la mano pubblica gestisca il meno possibile e in cui il controllo sia esercitato al più basso livello possibile, senza tabù o feticci patriottici, senza leggi e patti che abbiano la pretesa di eternità. Con tanta, tanta indipendenza.
*Articolo scritto nel Settembre 2002 e respinto dall’editore, pubblicato per la prima volta ieri dall’Associazione Gilberto Oneto.

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