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Trump, come indebolire un’intera economia con qualche dazio

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di GERARDO COCO

Fin dall’inizio del suo mandato Donald Trump ha più volte ripetuto che la causa della perdita di competitività dell’industria statunitense è il persistente deficit commerciale (l’eccesso di importazioni su esportazioni), frutto, come ha scritto in un tweet, «di decenni di commercio sleale e cattiva politica con paesi di tutto il mondo» e il rimedio è l’imposizione di barriere tariffarie. Pertanto ha cominciato a introdurre dazi del 25% sull’import di acciaio. Ma questa misura avrà effetti esattamente opposti a quelli sperati: sarà l’equivalete di una devastante tassa interna che minerà la competitività di migliaia di industrie e distruggerà posti di lavoro.

Innanzitutto Trump si è dimenticato (o forse ignora) che il deficit commerciale statunitense è un fatto strutturale così come lo è il surplus commerciale del resto del mondo e che entrambi sono conseguenza del dollar standard, quel malsano sistema monetario che si è evoluto lungo quasi mezzo secolo a partire dalla sostituzione dell’oro con il biglietto verde come strumento di pagamento globale. Da allora i pagamenti internazionali sono stati regolati in dollari e il resto del mondo per procurarseli non ha avuto altra scelta che mantenere un surplus commerciale verso gli stati uniti che di conseguenza, si sono ritrovati con un deficit commerciale permanente. Ciò spiega come questo grande paese, che una volta era il maggior creditore, sia diventato il maggior debitore mondiale mentre il resto del mondo abbia accumulato un eccesso di riserve in dollari come maggiore esportatore e creditore verso gli Usa. Spiega anche come nel resto del mondo si sia affermato il modello di crescita basato sulle esportazioni con il seguito di svalutazioni competitive per aumentare la quota di export sui pil. Spiega, infine i deficit gemelli (twin deficits) degli Usa, ossia la coesistenza, anche questa strutturale, di disavanzo commerciale e disavanzo pubblico: quest’ultimo genera l’eccesso di domanda che per essere soddisfatta richiede l’importazione di produzione esterna dando luogo, appunto, al disavanzo commerciale.

Ma questa situazione, in fondo, ha fatto comodo a tutti altrimenti non sarebbe durata mezzo secolo, da una parte consentendo agli Usa di consumare al di sopra delle proprie possibilità grazie al debito perpetuo concessogli dal resto del mondo; dall’altra; consentendo al resto del mondo di inflazionare a volontà, sulla base delle riserve in dollari, le proprie valute per mantenerle competitive.

Trump ora afferma che il disavanzo commerciale di $800 milioni, risultante dalla differenza tra 2.4 trilioni di import e 1.6 di export, impedisce la crescita. Tale gap, che rappresenta l’eccesso di consumo sulla produzione interna, è tuttavia finanziato dal riflusso di dollari verso gli Usa. Infatti il resto del mondo non tiene sotto il materasso i dollari incassati ma li reinveste in attività economiche e finanziare statunitensi. Nella bilancia dei pagamenti americana al deficit commercialecorrisponde quindi un surplus equivalente di capitale e, simmetricamente, nella bilancia del resto del mondo al surplus commerciale corrisponde un deficit equivalente di capitale.

Per oltre cento anni, ogni anno, dall’era coloniale alla prima guerra mondiale gli Stati Uniti hanno avuto un deficit di conto corrente, mentre il capitale europeo affluiva nel Nuovo Mondo dove l’economia prosperava. Dunque se è vero che alcune importazioni possono mettere a rischio l’industria locale è anche vero che l’afflusso di capitali esteri la espande. La differenza con il passato è che mentre allora i capitali importati erano impiegati per espandere la capacità produttiva, nell’epoca attuale sono impiegati soprattutto per finanziare (attraverso la vendita di bond governativi) il deficit pubblico cioè l’eccesso di consumo che è appunto riflesso dal deficit commerciale. Quest’ultimo è solo il sintomo della perdita di competitività dell’industria americana. Le importazioni dall’Europa, dal Canada,dalla Cina o dalla Corea del Sud ne sono solo la conseguenza.

Ora il paradosso è che l’imposizione di dazi sull’import di questi paesi, invece di ridurre il deficit commerciale lo aumenterà e invece di salvare posti di lavoro, li eliminerà anche senza le ritorsioni dei paesi esportatori. Innanzi tutto, una volta eretta la barriera tariffaria contro la concorrenza estera, i produttori statunitensi di acciaio ne aumenteranno il prezzo di un ammontare pari proprio al dazio! Infatti non si accolleranno il rischio di espandere la capacità produttiva per compensare le minori importazioni in quanto il dazio potrebbe essere rimosso da un nuovo presidente nel giro di pochi anni. Pertanto i dazi si risolveranno in tasse sugli acquisti a carico di tutti, produttori e consumatori. Un semplice esempio. Gli elettrodomestici, in cui la componente acciaio è elevata rispetto al costo totale saranno più cari del 25%, quindi se ne produrranno di meno negli Usa, si importeranno più lavatrici e frigoriferi non gravati dal 25%, e il disavanzo commerciale aumenterà invece di diminuire! Allo stesso modo saranno colpite le migliaia di imprese i cui prodotti hanno per componente acciaio o alluminio. Secondo l’American Iron & Steel Institute ci sono 140.000 di lavoratori nell’industria dell ’acciaio, ma ce ne sono 6 milioni nelle industrie che fanno prodotti con l’acciaio e che rischiano di essere decimati dalle misure protezioniste.

Quale sarà l’impatto sull’industria delle costruzioni, il settore maggiormente interessato dal programma di spesa di 1,5 trilioni in deficit per il maxi piano infrastrutturale dove la componente dell’acciaio sarà preponderante? A causa dell’aumento dei prezzi il governo dovrà spendere e indebitarsi di più. L’aumento del debito indebolirà il dollaro, tutte le importazioni rincareranno e così aumenterà ancora di più l’aborrito deficit commerciale. La cascata di effetti negativi qui accennata è terrificante e rischia di demolire l’economia creando disoccupazione su vasta scala. Trump non ha imparato la lezione della storia: le barriere artificiali non migliorano la posizione competitiva di un paese ma la distruggono.

Cosa invece avrebbe dovuto fare? Per ricostituire la competitività all’industria americana avrebbe dovuto lanciare un programma massiccio di riduzione della spesa pubblica e di rilancio del risparmio interno in modo da ridurre la dipendenza da quello estero che è l’unico modo per ridurre il deficit commerciale e ricreare la base produttiva capace di soddisfare la domanda interna ricreando nel tempo le condizioni per soddisfare anche quella esterna, cioè esportare di più. Solo in questo modo avrebbe potuto imboccare la strada per Far tornare grande l’America.

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1 COMMENT

  1. Bentornato al Prof. Coco.
    Un articolo molto interessante.
    Trump deve mantenere promesse, perché già corre per il secondo mandato.
    Costi quel che costi, evidentemente.
    Mi chiedo, inoltre, chi sia il suo consigliere economico vero.

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