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Un collasso può cambiare la pseudo-democrazia italiana

Da leggere

di ENZO TRENTIN

Nel mondo ci sono decine di manifestazioni popolari contro i rispettivi governi:

  • Non ci sono solo le odierne prolungate e violente proteste a Hong Kong.
  • A marzo 2019 ampie proteste di piazza hanno scosso l’Algeria ottenendo una prima ed importante concessione da parte del regime: il presidente Abdelaziz Bouteflika, ha deciso di fare un passo indietro e ritirare la propria candidatura in vista delle elezioni presidenziali che sono state rimandate alla fine del 2019.
  • Il 23 giugno 2019 c’è stata un’imponente manifestazione di 250mila giovani a Praga per chiedere le dimissioni del premier ceco, il miliardario Andrej Babiš, accusato di frode e sotto inchiesta anche in Europa per conflitto di interesse.
  • A inizio ottobre 2019 in Iraq ci sono manifestazioni contro il governo a Baghdad: tre morti, oltre 200 feriti, più di 3.000 le persone scese in piazza per protestare contro la corruzione della classe politica irachena e la disoccupazione
  • A metà ottobre 2019, i cittadini libanesi di ogni estrazione sociale sono scesi in piazza con proteste senza precedenti che superano le barriere confessionali, di classe e regionali.
  • Nell’ultima decade di ottobre 2019 in Cile si sviluppa la rivolta popolare contro il governo di Piñera. Le proteste uniscono studenti e lavoratori in un paese con diseguaglianze sociali tra le più alte al mondo. Il presidente dichiara: «Siamo in guerra»
  • Il 10 novembre il boliviano Evo Morales alla fine ha ceduto annunciando nuove elezioni in seguito alle manifestazioni popolari al grido di «Togliete di mezzo il presidente indio.»
  • In Venezuela, le proteste contro Maduro durano da tempo. Nel corso di quella che è stata definita “Operazione Libertà”, Caracas è stata teatro di rilevanti scontri che hanno opposto le forze armate e i fedelissimi di Maduro da un lato ai partigiani di Guaidó e ad elementi della Guardia Nazionale in rivolta.
  • In Francia vanno avanti da un anno le proteste dei gilet gialli.

Tutte queste manifestazioni sono il segno che i popoli ne hanno le scatole piene. A queste turbative si deve aggiungere la presa d’atto che sono molti i popoli senza Stato (come i curdi), che rivendicano l’autodeterminazione e l’indipendenza. il Corriere della Sera, del 17 settembre 2014, pubblica [VEDI QUI] una mappa delle sole rivendicazioni in Europa.

Il Global Peace Index c’informa addirittura su quali sono i paesi più pacifici. Quanto è violenta l’Italia? Dove si è verificato il più alto incremento di violenza nell’ultimo anno? Questo e altro sulla mappa della pace del Global Peace Index [VEDI QUI], che ci racconta, purtroppo, che il mondo è sempre meno pacifico. Altro elemento di possibile instabilità lo si ricava dalle statistiche mondiali [VEDI QUI], aggiornate in tempo reale, su popolazione, governo, e altre interessanti rilevazioni come popolazione mondiale, emissioni di CO2, fame nel mondo etc.

«In tutte le tue battaglie combattere e conquistare non è la suprema eccellenza; l’eccellenza suprema consiste nello spezzare la resistenza del nemico senza combattere». L’idea che il collasso possa essere uno strumento utilizzabile in guerra potrebbe risalire allo storico e teorico militare cinese Sun Tzu, che nel suo scritto “L’arte della guerra” (5° secolo a.C.), enfatizza il concetto di vincere le battaglie sfruttando la debolezza del nemico piuttosto che la forza bruta.

È normale che in guerra il conflitto si concluda con il crollo di una delle due parti ma, in alcuni casi, il collasso avviene senza grossi combattimenti o addirittura nessuno. Un esempio particolarmente rappresentativo è quello del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, arrivato dopo diversi decenni di “Guerra Fredda” che non era mai sfociata in un conflitto aperto. Come aveva già notato Sun Tzu, la capacità di innescare il collasso della struttura militare o socio-economica del nemico è probabilmente la strategia di risoluzione dei conflitti più efficace. Ma come raggiungere questo risultato? La moderna scienza dei sistemi complessi può dirci molte cose sui fattori coinvolti nel collasso di tali sistemi, sebbene non possa fornire ricette valide per tutte le situazioni.

Studiando le mobilitazioni che sono riuscite bene, come la Marcia dei bambini a Birmingham, in Alabama nel 1963 (che ebbe un ruolo fondamentale nel porre fine alla segregazione razziale negli Stati Uniti), come i Lunedì di Lipsia del 1989 (dove tirarono palle di neve fin quando non riuscirono a far cadere il regime della Germania orientale) e il movimento di Jana Andolan in Nepal nel 2006 (che abbatté il potere assoluto della monarchia e contribuì a mettere fine all’insurrezione armata), Roger  Hallam ha sviluppato una formula per efficacidilemma actions”. Un’azione di dilemma è quella che mette le autorità in una posizione scomoda: o la polizia permette la disobbedienza civile, incoraggiando così a far dimostrare altra gente, oppure deve caricare i manifestanti, creando un potente “simbolismo nel sacrificio senza paura”, incoraggiando, anche così, altra gente ad unirsi alla causa.

Tra i fattori essenziali che ha scoperto, ci sono le manifestazioni di migliaia di persone nel centro della capitale, che devono mantenere una disciplina rigorosamente non violenta, dimostrando contro il governo per giorni o per settimane. Il cambiamento radicale – si legge – “è per lo più un gioco di numeri. Diecimila persone che infrangono la legge hanno sempre avuto un impatto maggiore di un attivismo su piccola scala e ad alto rischio”. La vera sfida è organizzare azioni che incoraggino il maggior numero possibile di persone a unirsi e questo significa che dovrebbero essere programmate alla luce del sole, in modo inclusivo, divertente, pacifico e rispettoso. Una azione del genere è stata convocata da Extinction Rebellion [VEDI QUI] nel centro di Londra, il 31 ottobre 2018. E le folle pacifiche degli indipendentisti catalani ne sono una conferma; anche se ad oggi hanno ottenuto poco.

Lo studio di Hallam fa intendere che questo approccio offre almeno la possibilità di infrangere l’infrastruttura di bugie che, per esempio, hanno materializzato le aziende produttrici di combustibili fossili. È difficile e il successo non è sicuro, ma – si legge – la possibilità che la politica faccia qualcosa di efficace in questa drammatica situazione è pari a zero. Le azioni di dilemma di massa potrebbero essere l’ultima, se non la migliore, possibilità di evitare il grande sterminio.

Facendo le cose per bene, anche in Italia le autorità non possono vincere. È per questo che sorprende e allibisce un certo pseudo indipendentismo veneto che non trova di meglio che coalizzarsi nel Partito dei Veneti, il quale ha per dichiarato scopo la promozione dei referendum consultivi (un vero furto di democrazia) e arrivano a pronosticare, tramite tale insulso strumento di arrivare alla dichiarazione dell’indipendenza della regione.

Alcuni considerano il Partito dei Veneti alla stregua della Lega Nord di Bossi, che sproloquiando di federalismo ha depotenziato lo stesso. Infatti, chi propone più il federalismo se non sparute élite? Oppure, altro esempio, il M5S che proponendo la democrazia diretta, ha disamorato l’elettorato al richiederla con decisione. Ed in fondo è la stessa operazione che Luca Zaia, per mezzo di alcuni elementi che oggi siedono in Consiglio regionale, nel corso della campagna elettorale del 2015 girovagano per i gruppi indipendentisti promettendo (se votati, e lo furono) l’autodeterminazione del Veneto; peraltro mai nemmeno tentata da costoro una volta installatisi in Consiglio regionale.

È necessario prendere atto che Il popolo e i suoi rappresentanti non coincidono affatto. Nelle assemblee e nei Parlamenti c’è una sovra-rappresentazione delle professioni liberali, come avvocati, insegnanti, etc. e ci sono pochi artigiani o commercianti, pochi operai o contadini, pochi tassisti o autisti di autobus, pochi studenti o casalinghe. Questo significa che esiste una parte della società che semplicemente non è rappresentata. E poi per sperare di essere eletti, bisogna avere denaro, essere disinvolti e disinibiti, bisogna entrare in un apparato, prendere la forma di un partito (il PdV appunto). Questa democrazia rappresentativa ha fatto il suo tempo. Il referendum sul Trattato di Maastricht del 20 settembre 1992, in Francia, e il successivo Trattato di Lisbona sono la perfetta incarnazione dei suoi limiti: gli eletti dal popolo che operano e votano contro il popolo. Insomma, un collasso dello Stato italiano è un’eventualità che anche l’uomo qualunque percepisce come possibile e imminente.

A questo punto, secondo forti riservate, sembra (il condizionale qui è d’obbligo) che ci sia un “altro” indipendentismo veneto che lavora sotto traccia per elaborare una bozza di progetto politico-istituzionale innovativo, dove al federalismo sono affiancati gli strumenti di democrazia diretta tra i quali l’iniziativa di delibere e leggi, il recall, il sorteggio degli incarichi istituzionali e giudiziali. Ma si tratta di persone che di necessità stanno facendo virtù, poiché appare evidente che prima qualsiasi attività pubblica bisognerà superare la primavera elettorale del 2020.

Questi indipendentisti “ad oltranza” sembra siano persone che non riescono a rallegrarsi nel vedere eventualmente vincente l’ennesima riproposizione della strategia del «Facciamo-fronte-contro-il-nemico-nel-nome-dell’indipendenza-poi-si-vedrà», considerando che il programma politico-elettorale del Partito dei Veneti è tanto pretenzioso quanto inconsistente [VEDI QUI]. E sapere che qualche innocente credulone contribuirà per l’ennesima volta a incoraggiare e far proseguire sulla strada della coltivazione pluridecennale del nulla, non li consola.

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