di PAOLO L. BERNARDINI
Giacinto De Sivo si spense a Roma, in esilio, nel 1867. Peraltro, tre anni fa ricorse il secondo centenario della nascita, De Sivo nacque a Maddaloni nel 1814. Ad eccezioni di pochi storici che si sono messi a ricostruire con acribia il pensiero del De Sivo, la sua memoria (aldilà di patrioti borbonici e storici professionisti) è ancora affidata alle pagine belle, splendide, ma splendidamente ambigue di Benedetto Croce, nel libro del 1918, dedicato appunto a quello storico “reazionario”. Scritto per seppellirlo, e per farne l’elogio, ma soprattutto per seppellirlo, anche se alla fine, dopo un lungo periodo d’oblio, Croce così facendo lo resuscitava, all’attenzione, effimera, del popolo, mentre una strage di stato veniva compiuta, nel 1918, una strage che molto probabilmente non vi sarebbe stata se l’Italia fosse nata federale, o confederale. Eppure per questo figlio della Terra di Lavoro, maggiore attenzione dovrebbe essere spesa, per colui che