di MATTEO CORSINI
Una delle costanti del dibattito politico italiano riguarda la spesa per le varie prestazioni associabili al welfare state. Invariabilmente chi governa rivendica di aver aumentato questa o quella spesa, mentre chi è all’opposizione lancia allarmi su tagli alla spesa.
Nessuno tra coloro che chiedono di essere votati si presenta agli elettori dicendo che la spesa per welfare dovrebbe essere ridotta, tanto in rapporto al Pil, quanto in valore assoluto. Sarebbe un suicidio politico, il che mi ha da tempo portato a concludere (amaramente) che quanto affermato oltre un secolo e mezzo fa da Frederic Bastiat sia sempre più vero. E’ ampiamente maggioritaria, cioè, l’illusione di tutti di poter vivere alle spalle degli altri.
Questo, però, ha come conseguenza che l’offerta politica non può che consistere in diverse sfumature di socialismo, ossia in diversi utilizzi della leva fiscale per favorire questo o quel gruppo di interessi, ma sempre spendendo e tassando, ovviamente nell’impossibilità di realizzare il sogno di fare tutto a debito e lasciare il problema ai posteri.
Tra coloro che lamentano invariabilmente tagli alla spesa sociale e invocano il randello fiscale “andando a prendere i soldi dove sono” (un approccio da brigante di strada, che peraltro, come evidenziava Lysander Spooner, non ha la pretesa di attribuire connotati morali alle proprie azioni nei confronti delle sue vittime) c’è Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, che tempo fa osservava, riferendosi alla legge di bilancio:
- “Per far tornare i conti ci sono due strade: o tagli la spesa o aumenti le entrate. E loro hanno deciso di tagliare la spesa, che vuol dire tagliare la sanità, la scuola, i salari e il sistema delle pensioni”.
Effettivamente per far quadrare i conti o si tagliano le spese o si aumentano le entrate. Ma i tagli di spesa di cui si parla non ci sono. Al più ci sono variazioni relative negli aumenti di spesa. Sentendo certi lamenti parrebbe che in Italia ci sia una spesa sociale da Paese subsahariano, ma secondo l’OCSE a sud delle Alpi tali voci di spesa raggiungono circa il 30% del Pil. Un’incidenza inferiore in Europa solo a quella della Francia, ma superiore a Germania e a tutti i Paesi scandinavi. Il che significa, tra l’altro, che l’Italia tende ad avere un welfare state, a prescindere da ciò che uno pensa dello stesso, sovradimensionato rispetto alle proprie possibilità economiche.
E per evitare di ridimensionarlo si continua a pensare di poter agire sulla leva fiscale, credendo che basterebbe aumentare la tassazione sui forfettari o debellare l’evasione fiscale per risolvere il problema. Senza rendersi conto che molta della ricchezza prodotta da costoro semplicemente verrebbe meno se il carico fiscale aumentasse ulteriormente.
In sostanza, è illusorio pensare che la produzione di ricchezza sia del tutto indipendente dalla sua successiva redistribuzione. Sarà forse un caso che l’Europa sia il continente meno dinamico e con il welfare state più generoso? E che all’interno della stessa Europa l’economia cresca tendenzialmente meno dove il peso dello Stato è maggiore?
Credo di no. Ma la maggioranza di elettori ed eletti si illude che si possa andare avanti così, magari spingendo investimenti pubblici dagli effetti magici e da finanziare con debito comune. Prima o poi dovranno fare i conti con la realtà. Purtroppo a pagarne le conseguenze saranno anche quei pochi che queste illusioni non le hanno.